Visioni contromano
Cinema di provincia
«Piccola patria» di Alessandro Rossetto, «Song’ e Napule» dei Manetti Bros e «In grazia di Dio» di Edoardo Winspeare: tre bei film che raccontano un Paese vivo. Ma legato alle sue peculiarità locali
Il cinema italiano arriva in sala con tre buoni film (in realtà uno ci è già arrivato da un po’). Tutti e tre a forte connotazione regionale. Il che dà vita ad un interessante paradosso. E cioè che il nostro migliore cinema è quello meno internazionale, ma quello che piace più all’estero, vedi Sorrentino, è quello che ci ritrae come una provincia, con molti vizi e poche virtù.
Partiamo da Piccola patria di Alessandro Rossetto (nella foto), documentarista che approda al cinema di finzione. Termine questo che più fuorviante non si potrebbe. In quanto Piccola patria, pur partendo da una storia inventata, ha uno stile e una recitazione incastonata nei luoghi, veri protagonisti del film e delle inquadrature, povere di primi piani e sempre alla ricerca di un marcato contesto ambientale. Il film si svolge nel nord est e racconta la storia di un giovane albanese che si trova inconsapevolmente al centro di un ricatto. Ricatto che il regista delinea come una appropriazione indebita del corpo del ragazzo da parte della stessa fidanzata e di persone per le quali uno straniero, qualsiasi straniero, è, comunque, un “foresto de merda”. A Rossetto riesce bene l’operazione di descrivere una realtà ripugnante e al tempo stesso vitale nelle sue propaggini giovanili, le meno inclini ai pregiudizi ancorché depredate dei più elementari diritti.
Del film dei Manetti Bros (nella foto) abbiamo già riferito durante la scorsa edizione della Festival internazionale del film di Roma. Song’ e Napule è un chiaro esempio della vitalità del cinema di genere. Partendo anche in questo caso da un contesto ambientale ben definito, la città di Napoli, la storia si dipana arricchendosi di personaggi e di situazioni divertenti con un epilogo rassicurante, fedele alla sceneggiata, quella così strenuamente difesa da Lello Arena nel leggendario finale di No grazie, il caffè mi rende nervoso.
In grazia di Dio, di Edoardo Winspeare, è nelle nostra sale già da qualche giorno (nella foto). Trattasi di una dolente storia al femminile, di una evoluzione emotiva e sociale che non giunge a conclusione ma che ci dà tracce di un futuro ancora da compiere, rivelando così una notevole maturità del regista. Anch’egli innamorato dei suoi luoghi, della sua Puglia, ritratta spesso come una cartolina ma mai in maniera compiaciuta, bensì dilatata nella sua inanità. Riscattata solo dalla progressiva riappropriazione da parte delle donne del film, tutte attrici non professioniste che talvolta vanno ben oltre il dilettantismo. Nel senso che non sempre il non sapere recitare aiuta, specialmente se come in questo caso diventa spudorato sfiorando il ridicolo. Decisamente troppe, comunque, le oltre due ore di durata.
In conclusione tre film che per motivi diversi fanno ben sperare e che forse andrebbero visti uno di fila all’altro. Non importa l’ordine, a patto che il film dei Manetti venga posizionato al centro. Una buona dose di adrenalina non può fare che bene a visioni altrimenti intense, profonde, magari un paio di grammi noiose.