I segreti di un gioiello dell'arte
Visita in Convento
Siamo entrati nel Convento di Trinità dei Monti, a Roma. Un luogo pieno di meraviglie ma quasi impossibile da visitare. Ecco che cosa abbiamo visto
Il 31 dicembre 1494 Carlo VIII giunge a Roma, penultima tappa della sua campagna d’Italia. Alla testa delle sue truppe, il sovrano francese attraversa Porta del Popolo e percorre la via Lata (via del Corso) per dirigersi a Palazzo S. Marco dove alloggerà. Le cronache riferiscono che uomini, cavalli e una possente artiglieria, impiegheranno ben quattro ore per muovere dall’angusto varco fino al Palazzo che è stato riservato al re. A noi piace pensare che, proprio in prossimità del viottolo tra le vigne che prenderà il nome di via Trinitatis, la via Condotti di oggi, un cavaliere si sia accostato al re di Francia, per indicargli alla sua sinistra la collina dei Pinci e l’area, appena acquistata dai suoi emissari, dove sarebbe sorta la Chiesa per l’Ordine dei Minimi voluta da Francesco da Paola. All’imbrunire di un giorno invernale avrà comunque potuto scorgere resti sparsi di qualche emergenza residua dei famosi sterminati Horti Luculliani, che occupavano la collina dall’inizio del II secolo e che, ironia della storia, un “gallico” e quindi un francese, Valerius Asiaticus, aveva già posseduto, ancora più abbellito e poi rovinosamente perso in favore di Messalina.
È Alessandro VI a concedere nel 1495 l’autorizzazione canonica alla comunità religiosa, che beneficiò di tutte le attenzioni dei cardinali ambasciatori del re a Roma e nel 1502 si può finalmente avviare il cantiere del Convento reale della Trinità del Monte Pincio. Da subito intestati proprio alla Trinità, non sono che una cappella, un dormitorio, il refettorio e la sala capitolare, riservati alla regola dei Minimi di nazionalità francese. Ma favori, finanziamenti e cure non sono mai venuti meno da parte della corte francese e i danni causati da distruzioni e saccheggi, che si sono susseguiti nei successivi 300 anni, gli stessi che non risparmiarono il resto della città, sono stati con impegno costante riparati.
Il complesso alle pendici del Pincio, dove Corte di Francia e pontefici hanno stabilito un legame forte, ha conosciuto in seguito il suo completamento e la piena valorizzazione con la realizzazione nel 1594 della strada di accesso costituita dalla strada Felice, (ora via Sistina), collegamento con i luoghi di pellegrinaggio, e della scalinata di accesso alla Chiesa (firmata da Domenico Fontana), pienamente funzionali al nuovo assetto urbanistico della città. Della fine del XVIII secolo è la scalinata degradante, (di Alessandro Specchi e Francesco Da Santis), «incontro scenico tra spazio e gente senza rivali nel mondo» (Bruno Zevi).
Estesi restauri compiuti dalle Soprintendenze e comunità religiose francesi risalenti agli ultimi decenni del secolo scorso (si continua a intervenire tuttora sulle facciate) che hanno interessato 1100 metri quadri di pitture murali, svelano intatte gli apparati decorativi realizzati tra il ‘500 e il ‘600, in occasione delle visite al convento che hanno carattere di straordinarietà e riguardano solo alcuni ambienti.
Il percorso di visita ha inizio dal Chiostro, uno dei due di cui è dotato il complesso; è un vasto cortile intorno al quale corre un quadriportico completamente affrescato. Nelle lunette sono rappresentate, in una narrazione serrata, le vicende che hanno visto protagonista S. Francesco da Paola nel corso della vita: nascita, battesimo, vestizione, guarigioni prodigiose e numerosi miracoli, tra i quali quello dei carboni ardenti che il Santo tocca a mani nude, senza scottarsi.
Tra i numerosi artisti impiegati dalle botteghe artistiche romane figura il più lodato tra loro, Giuseppe Cesari, meglio conosciuto con il nome del Cavalier D’Arpino di cui si ammira La canonizzazione di San Francesco di Paola, posto nella lunetta dopo l’entrata a destra. In corrispondenza dei pilastri, in un susseguirsi di “medaglioni”, sono ritratti negli ovali tutti i re di Francia, smaglianti dopo il recente restauro. A partire da Faramondo, regnante nell’Alto medioevo, fino a Luigi XIV, a voler marcare più di una testimonianza, quasi un avamposto francese, una proprietà per secoli rivendicata, in quella ovunque riconosciuta “grandezza” di Roma. Il refettorio, trionfo manierista del gesuita Andrea Pozzo, capace di illusioni prospettiche utilizzate alla scopo di imprimere una sorta di realismo con una fittizia terza dimensione, è una vasta sala, appena in penombra; è decorata a tempera e illustra Le nozze di Cana, (1694). Sobrio è il fondale in marcato contrasto con le pareti, dove i convenuti si abbandonano ad atteggiamenti disinvolti, in preda alle bevande.
Attualmente il convento, pur sede di una scuola privata, è poco noto e per i più rappresenta quasi solo un fondale scenico insieme all’attigua chiesa; conserva al suo interno preziose testimonianze di una vocazione scientifica confermata negli anni per aver ospitato matematici, fisici e filosofi. Ne è testimonianza la meridiana catrottica; un sorprendente reticolo di linee compiute, tracciate nella volta di un corridoio dove, grazie a uno specchio appositamente posizionato a catturare un raggio, “il sole si gloria di entrare”. Questo piccolo cerchio luminoso segna simultaneamente l’ora di ogni città all’epoca conosciuta (1640) nel momento in cui la si cerca, con la distinzione dell’ora italica, francese e araba. Eravamo lì, esterrefatti, alle ore 12 del 14 marzo 2014; questa era l’ora indicata sulla linea di Roma.
Che dire infine dell’anamorfosi? Ne abbiamo visitata una delle due presenti. Opera di Emmanuel Maignan, insegnante ma non pittore, che vuole rimarcare, proprio dove si coltivavano le discipline più diverse, la non conflittualità tra scienza e fede. Essenzialmente monocroma, è un’immagine deformata che si ricompone solo se la si osserva da un punto di vista privilegiato, resa possibile dall’utilizzo di un’audace prospettiva. Rappresenta il viaggio di San Francesco da Paola dalla Sicilia a Tours, ma il messaggio, neppure troppo recondito, vuole comunicare come sia vitale la capacità di andare oltre le apparenze, coltivare il dubbio, conoscere profondamente se stessi.