Un restyling d'autore
Il ritorno di Marlowe
Benjamin Black alias John Banville ne “La bionda dagli occhi neri” fa rivivere il mitico detective creato da Raymond Chandler. Con la consueta maestria che contraddistingue lo scrittore irlandese
Chi ama la letteratura tende a pensare – e fa bene – che i tanti o pochi personaggi che ha incontrato nelle pagine dei libri più amati non siano svaniti, persi in un orribile nulla, ma riposino in un angolo dell’universo. Pronti a scendere nei nostri noiosissimi cortili. Essi vagano, o se ne stanno fermi e buoni in attesa di una “chiamata”. Non sono “le anime morte” di Nikolaj Gogol. Semmai anime dantesche, costrette il più delle volte a ripetere, magari con verosimili variazioni comportamentali, quelle imprese che li hanno resi popolari e, soprattutto nostri “amici”.
Immaginiamo un grande armadio dove non sono stipati né esseri umani né cadaveri, ma personaggi della grande letteratura. Tutti in fila, quasi ad aspettare un narratore dalla penna buona e duttile, in grado di riportarli in vita, intendendo “vita” la pagina di un libro. È un furto? O addirittura un atto sacrilego? È, semmai, un bizzarro atto d’amore verso i grandi protagonisti che quando ne abbiamo letto le gesta ci parevano proprio come vecchie e amatissime conoscenze. In quell’armadio ce ne sono due che fumano la pipa: uno è Jules Maigret, l’altro è Philip Marlowe, cavaliere senza Graal, ruvido, ritroso romantico, solitario, spiritoso alla maniera degli americani (l’umorismo made in Usa è composto di paragoni talvolta grossolani con le cose pratiche, fortemente materiali, e non sottigliezze europee), geloso dei suoi angusti spazi polverosi che dovrebbero riprodurre, secondo l’esperienza ambigua e dolorosa dell’autore, Raymond Chandler, la madre. Un nido, una grotta rinfrancante da cui dover uscire per guadagnarsi la vita per infilarsi nel “mondo del peccato” che è Los Angeles, “città sudata” dove accadono “gaie mattanze”.
Philip è il “doppio” del suo autore, come era capitato a anche a Poe e ad Hammett. Così come a tanti altri. Maigret non era forse la versione pudibonda e severa del gaio e donnaiolo Simenon? Marlowe, nei suoi primi e faticosi esordi, compì una sorta di cannibalismo sui suoi stessi testi. È risaputo. Non è cannibalismo, se non in apparenza, la brillante impresa dell’irlandese John Banville che con lo pseudonimo (più volte usato) di Benjamin Black estrae dall’armadio teatral-letterario Philip Marlowe, lo rianima senza però farne un orribile Frankestein. Tutto questo nel romanzo La bionda dagli occhi neri (Guanda, 299 pagine, 17,50 euro).
Banville è genialmente obbediente a Chandler: sa descrivere questo scorbutico e timido Odisseo americano, ben consapevole che le sue presunte vittorie contro le malefatte, le menzogne e le risibili caricature umane dell’America dall’anima in gran parte sudicia, non sono altro che sconfitte sul piano umano. Chandler, e così Banville, sono alieni da facili illusioni risolutorie. Non sono certo Agatha Christie che geometricamente rimette a posto i tasselli scombinati dopo un delitto-enigma. Semmai è un paziente scavatore in terreni infettti d’un paese ammaliato dal nulla, con una scintillante e fasulla apparenza. E corrotto fino al midollo. Scriveva Chandler nella lettera a un’amica, ex sua fiamma: «Ho vissuto tutta la mia vita sulla soglia del nulla».
Ed è questo omaccione che riceve i clienti in uno studio polveroso che compare nelle prime pagine di Banville. Scricchiolio lungo il corridoio, inconfondibile e amabile rumor di tacchi, e infine compare la signora Cavendish (lo stesso nome del tabacco usato da Philip). È l’inevitabile femme fatale, di famiglia ricca, che vuole scoprire dove sia finito l’ultimo dei suoi ganzi, Nico Peterson. Pare più per orgoglio ferito che per amore. Peterson è scomparso, e lei non l’accetta. Di qui l’immergersi del Marlowe di Banville in luoghi stravaganti, in mezzo a individui loschi. La sua nuova cliente appare già come una calamita di seduzione, a cominciare dal sensualissimo binomio capelli biondi-occhi neri. Pagina dopo pagina il lettore si dimentica chi sia l’autore vero. E questa è prova di bravura di Banville.
Non è certo la prima volta che a un personaggio famoso viene iniettata linfa nuova. È stato insomma “adottato” più di una volta, a testimonianza della sua forza fortemente evocativa. Chandler dopo Il grande sonno ha scritto altri sette romanzi. L’ottavo, Poodle Spring Story è rimasto incompiuto. A terminarlo ci ha pensato, nel 1989, Robert B. Parker. Per amore della cronaca, non si deve dimenticare un altro, e più raffinato passaggio di consegne. Si ricordi che in Triste, solitario y final è l’argentino Osvaldo Soriano a prendedere a braccetto, nelle sue investigazioni, lo stesso Marlowe.
A gonfiare la leggenda del cavaliere detective ci ha pensato un italiano con lo pseudonimo di Frank Spada (poco originale, a dire il vero) che nel 2010 ha pubblicato due romanzi con simil-Marlowe: Marlowe ti amo e Dimmi chi sei Marlowe (Robin edizioni). Lavoro onesto, ma non superbo come quello compiuto dal grande John Banville.