«Io ero l'Africa» pubblicato da Avagliano
L’educazione africana
Nel suo nuovo romanzo, Roberta Lepri insegue un mito di formazione atavico: la scoperta del corpo (e dell'anima) nel Continente Nero negli anni Venti. Un libro da non perdere
Emergo dalla lettura del nuovo romanzo di Roberta Lepri con l’impressione di essermi imbattuto in un libro significativo di quest’annata letteraria. Io ero l’Africa di Roberta Lepri (Avagliano, 120 pagine, 13 euro) è un libro bello e necessario per molti motivi. Proviamo a elencarli, non in ordine di importanza perché sono tutti ugualmente importanti. Intanto perché è un romanzo avvincente e di ottima qualità letteraria che si legge d’un fiato e si congeda con un pizzico di rammarico come sempre succede con la buona letteratura. Poi perché ci consegna uno straordinario personaggio femminile, Angela, la nonna protagonista che, alternandosi con il nonno, narra la sua Africa a Bianca, la nipotina che con le sue domande e la sua insaziabile curiosità funge da traino al racconto.
Ma sono perfetti anche gli altri personaggi: il marito Teo, il figlio Tito, il cugino Aldo, le donne della casa in Umbria, in particolare Rema, il donnone di un quintale, che odia il mondo – in specie la cognata Angela e il fratello Teo – perché si è vista portare via un giorno il suo amore, un carabiniere di 15 anni più giovane, l’unico che le aveva dedicato delle attenzioni, che il padre e il fratello avevano messo in fuga perché la faccenda vista la gran differenza di età «non stava bene», era socialmente sconveniente. La donna subisce quella ingiustizia, quella violenza, che si trasforma in odio, in malanimo nel suo cuore. E lo stesso capita a Teo, che al disamore del padre per lui risponde poi nel corso della sua vita con la sua incapacità di amare la moglie Angela e i figli e, in Africa, lo fa diventare spietato con i neri nonostante le sue idee socialiste.
Un altro motivo di “necessità” di questo libro è che ci racconta qualcosa che fa parte della nostra storia e però conosciamo molto poco e male: il nostro passato coloniale in Africa, nello specifico in Somalia; e lo fa tratteggiando un’immagine di quel continente, di quel paese per nulla oleografica, ma anzi autentica, profonda, ricca di chiaroscuri, felicemente simbolica e metaforica.
La condizione femminile di sudditanza si salda nelle pagine africane alla condizione dei neri e non è certo casuale che siano proprio gli uomini bianchi, i maschi, quelli che maggiormente approfittano della condizione di asservimento razziale africano dei neri indigeni dimenticando con facilità e rapidità le proprie condizioni di servitù subite in patria. Mentre la donna bianca, Angela, dimostra una maggiore sensibilità condividendo in qualche modo quella condizione.
La scrittrice, per raccontarci l’Africa, si è basata sulle narrazioni familiari e non su un’esperienza diretta, e questo ci sorprende ma non ci pare assurdo: in fondo anche Salgari ha raccontato nei suoi romanzi e racconti di paesi che non aveva mai visto se non sui libri, e lo stesso Kafka ha scritto il capolavoro America senza essere mai stato in America. L’Africa che ci racconta Roberta Lepri è una terra primordiale nella quale possono emergere con nitore e forza (senza ostacoli) i sentimenti, le passioni ancestrali dell’uomo. E così anche le contrapposizioni morali, razziali. È, per questo, oltre che un preciso luogo geografico anche un luogo della mente, un luogo dell’anima.
Un ennesimo motivo di interesse di questo romanzo – e certo non da ultimo come importanza – è la rappresentazione del corpo dal punto di vista soprattutto femminile. A questo proposito vorrei consigliare a tutti di leggere il bellissimo saggio di Paolo di Paolo Storia del corpo, recentemente pubblicato dall’editore Perrone. Dove appunto si analizza la storia della letteratura italiana, soprattutto novecentesca, sotto la specola del corpo. Ecco, questo romanzo della scrittrice umbra Roberta Lepri potrebbe figurare a buon diritto in quella rassegna per il ruolo fondamentale che ricopre il corpo in quest’ultimo suo romanzo. Roberta Lepri è esplicita, a tratti perfino brutale, nel rappresentare pulsioni e desideri della protagonista, già negli anni della prima adolescenza (Anni Venti), scardinando con scioltezza il tabù, ancora oggi ben solido, della masturbazione femminile (il confessore comincia a chiederle, ancora in età impubere, se è solita toccarsi e lei non può che negare non sapendo ancora di che cosa si tratta, ma poi, a un certo punto, smette di negare e tace, e il prete da quel silenzio capisce che ha cominciato a farlo).
Non meno esplicite sono le descrizioni dei suoi primi rapporti nel pagliaio con colui che diventerà suo marito. Dopo la prima volta lei arrivava direttamente senza biancheria e si mostrava audacemente libera e persino impudica quasi scandalizzando l’uomo. Ma anche le descrizioni dei parti appaiono spicce, spogliate di qualunque aura romantica, e tuttavia commoventi: «Avere figli era la cosa più bella del mondo. Angela si ricordava come era stato il primo (….) Le acque si erano rotte mentre stava tornando dal campo. Non aveva accelerato il passo, solo sorriso. Si era lavata, si era messa a letto e aveva fatto quasi tutto da sola…».
Questa fisicità, questa corporeità, emerge ancora più chiaramente in Africa che sembrava fatta apposta per ingigantire le sensazioni. Come la coppia mette piede in terra africana (prima lui e poi dopo qualche tempo lei) le cose cambiano radicalmente fra loro. Teo acquista sicurezza, diventa volgare, incomincia a bestemmiare spesso e a rivolgersi alla moglie in modo autoritario e sprezzante, da padrone, la tradisce con le giovani nere del luogo senza curarsi neppure troppo di nasconderlo, come se fosse una cosa normale, comportandosi cioè come tutti gli altri. E poi maltratta e punisce con la frusta e col bastone i neri alle sue dipendenze che sgarrano. E inevitabilmente lei comincia segretamente a disprezzarlo e al contempo a provare un’inconfessabile attrazione per quei corpi scolpiti nel bronzo che le razzolano intorno seminudi tutto il giorno: in particolare in suo boy, Said, un guerriero Masai, che la salverà in un momento drammatico della sua vicenda in Africa (uni dei momenti più forti del romanzo): quando verrà assalita da un elefante imbizzarrito, e di fronte all’inerzia vigliacca del marito pur armato di fucile, il prestante nero colpirà a morte l’enorme bestia e le si butterà sopra per proteggerla con il suo corpo. In quell’occasione lei sviene e lui forse abusa di lei nel suo stato di incoscienza, o forse è soltanto lei a immaginarlo, ad accarezzare quel pensiero.
Da questo momento in poi la temperatura drammatica del libro cresce, prima con le splendide descrizioni – accese, visionarie – della festa che la protagonista organizza nella sua shamba in onore al cugino Aldo, anche lui colono ma più ricco di loro e fascinoso agli occhi di Angela. Il marito, malato, prostrato dalla febbre, partecipa a quel rito messo in piedi dalla moglie malvolentieri, covando la sua gelosia, il suo rancore e la sua estraneità: tutti quei neri danzanti, i fuochi, il rumore dei tamburi, i canti, il profumo della carne arrostita, della cannella, dei corpi sudati, l’allegria dei bianchi ubriachi, le attenzioni di sua moglie per il cugino, tutto gli si mescola in testa in un vortice insensato e malefico. Poi c’è l’arresto del figlio Tito, venuto anche lui da qualche mese a lavorare in Africa, che in cella uccide un nero colpevole di aver a sua volta ammazzato un suo amico, figlio di un altro colono italiano. Lo zio Aldo grazie al denaro lo fa uscire di galera, ma il giovane deve scappare e così si imbarca e torna il Italia, seguito di lì a poco anche dai genitori. Il libro finisce con il marito Teo che chiede ad Angela con insistenza perché le piacciono tanto gli africani, i neri, e lei evita sdegnosamente di rispondergli. Com’è cambiata Angela, lui quasi fatica a riconoscere la ragazza che aveva sposato anni prima in Italia. «Voleva sapere chi era lei. Chi era la donna che aveva amato e perduto. Nient’altro. – Chi sei tu? – le chiese sfinito. Angela neanche si voltò per rispondere. Solo, abbracciò la notte con tutto lo sguardo, – Io sono l’Africa – disse».