Flavia Gasperetti
“Frida K.” al Teatro di Documenti

L’arte c’est moi

È con bella intensità che Enrica Rosso restituisce nel monologo che si replica fino a domenica a Roma, l'epica della pittrice messicana. Capace di imporre la sua tormentata vita come opera d'arte...

Come è ormai risaputo, lo si è annunciato anche su questi schermi, qui a Roma siamo in piena Frida-mania. La supermostra sull’opera della pittrice messicana Frida Kahlo ha aperto ieri i battenti alle Scuderie del Quirinale, e da ieri sera il Teatro di Documenti a Testaccio presenta il monologo teatrale Frida K. scritto da Valeria Moretti, messo in scena e interpretato con bella intensità da Enrica Rosso.

Quella a cui assistiamo è una performance che ha trovato un’attenta misura nel portare in scena un’icona dimostratasi così dirompente e longeva che, gioco forza, crediamo tutti di conoscerla già.

Frida Kahlo ci accoglie in scena seduta e fiera, non sdraiata supina come ce la rappresenta di solito la sua ben nota iconografia – la posizione nella quale ha dipinto la maggior parte delle sue tele, costretta a letto dalla malattia, poi l’incidente terribile che le ha procurato la frattura della colonna vertebrale, le lunghe degenze tra un’operazione e l’altra che hanno scandito la sua vita. Qui, invece, ci ritroviamo alla presenza di Frida immaginata nella sua casa azzurra a Coyoacán, seduta su una poltrona girevole. Il martirio del corpo è suggerito dall’utilizzo di un solo, efficacissimo espediente: i piedi di Frida non toccano terra, le gambe sono immobili. Questo contrasto tra la fisicità viva, energica del busto, la gestualità ampia delle braccia contrapposta all’immobilità di quelle gambe di bambola è potente. Il piede destro è fasciato da una calza nera, altro richiamo visivo che con discrezione ci colloca nel momento dal quale Frida ci sta parlando: la pittrice sta per subire l’amputazione della gamba andata in cancrena, siamo quindi nel 1953, l’anno precedente alla sua morte.

Ciò a cui assistiamo quindi è un atto unico in cui Frida Kahlo ripercorre, rivolgendosi a una presenza immaginaria, tutta la sua vita. Ci parla con un accento messicaneggiante ed è l’unico dettaglio, questo, a non avermi convinto del tutto, perché non mi è parso necessario.

Ma non importa, l’idea di utilizzare la forma del monologo teatrale per rivisitare questa figura d’artista è centrata; d’altronde, viene da dire, il segreto della sua fama – una fama che potremmo quasi definire mainstream, avendo catturato l’immaginario di un pubblico molto più vasto di quello formato dagli abituali frequentatori di mostre – è stata la forza con cui ha imposto la sua vita, i suoi amori, la fede politica e il suo corpo sofferente come soggetto della sua arte. A tutti questi elementi Frida Kahlo ha dato, nella pittura come nei suoi diari e taccuini, una dimensione epica, la sua vita era già rappresentazione – gli abiti che indossava e con cui amava ritrarsi, nelle parole pronunciate in scena da Frida/Enrica, sono abito-costume: serve un costume per impersonare compiutamente se stessi sul palcoscenico della vita. Instancabilmente Frida Kahlo ha raccontato e espresso se stessa con tutti i mezzi che aveva a disposizione e quella sua caparbia urgenza di dire è la stessa che ritroviamo, qui, ben resa, in questo spettacolo.

Frida K. è in scena ancora questa sera e fino a domenica 23 marzo, il Teatro di Documenti offre una cornice davvero suggestiva e intima, perfetta per lei. Se vi sbrigate, fate ancora in tempo.

(Il Teatro di Documenti è in Via Nicola Zabaglia, 42, orario spettacoli 20.45, domenica ore 17.30. www.teatrodidocumenti.it)

 

Facebooktwitterlinkedin