La nuova prova di un narratore di valore
La grazia e la vita
Il nuovo romanzo di Davide Orecchio è una conferma del suo talento: "Stati di grazia" è il racconto di un'umanità che ha solo le armi della testimonianza per sopravvivere
Che Davide Orecchio fosse uno scrittore importante lo si era capito da subito, col suo libro d’esordio Città distrutte (le Sei biografie infedeli del 2012 edite da Gaffi, con le quali si aggiudicò nello stesso anno il Premio Mondello, il SuperMondello e il Premio Volponi). È uscito il 27 febbraio in libreria un nuovo libro pubblicato da il Saggiatore, Stati di grazia (pp. 309, euro 16). È un romanzo composto da una serie di racconti di singole esistenze che potrebbero anche essere letti autonomamente, tanta è l’esattezza che ogni destino umano, da solo, esprime; se non fosse che si perderebbe la meraviglia di osservare la composizione, l’architettura complessiva progettata da Orecchio, il suo gioco di linee – di segni – che si intersecano come a formare un cono rovesciato che, raggiunta la cima, mostra il precipizio, la voragine stringente del suo contenuto.
Il romanzo principia nel 1954, a Enna, con la storia di un insegnante, Paride Sanchis, spezzato dalla vita: una moglie distante, una figlia impaurita, un alunno che muore in miniera soffocato dal gas. Ancora vite di uomini uccisi, umiliati dalla storia – come in Città distrutte – in cui si percepisce la soglia in cui quegli stessi uomini osservano in controluce la loro innocenza e la loro colpevolezza: ciò che li ha resi impotenti e nudi – disarmati – dinnanzi alla storia (cosa potevo cambiare della mia vita, di quella degli altri, del corso della storia? Quale danno ha comportato questo mio desiderio di rivalsa nelle vite degli altri?). Una storia che dalla Sicilia ci traghetta in Argentina, agli anni della dittatura e della contestazione. Vite di individui raccontate con una tecnica che chiamerei di accumulo, come Orecchio caricasse la lingua fino al rilasciamento finale. I suoi racconti avanzano per elenchi didascalici; elenchi di cose viste, dette, fatte, sentite, pensate. La lingua raccoglie ogni cosa – ancora: ogni segno – del reale dentro a un corpo che, proposizione dopo proposizione, si satura definendo la sua forma (il suo carattere, il suo dolore) fino all’apice oltre il quale il corpo precipita, si spezza, si sforma.
Ma quella grazia che nel titolo è associata a una condizione, a uno stato appunto, a cosa realmente fa riferimento? «Le donne del porto in rivolta confiscano il pescato ai mariti che rientrano dal mare: lo gettano in acqua, lo seppelliscono tra i flutti. Un vecchio malato s’alza di scatto dal giaciglio dell’ospedale, strappa i tubi dal corpo, riscatta il pene dalla cannula, lacera i cerotti e chiede libertà; che gli tolgano il respiro. Ecco gli Stati di grazia, dove iniziano ad affiorare gli scomparsi: gente sparita da mesi torna a farsi vedere e i testimoni assistono al ricomporsi delle fattezze […]». Lì dove iniziano ad affiorare gli scomparsi, ovvero, lì dove uno stato di invisibilità, quindi di mutismo, trova finalmente una sua espressione. Lo sappiamo, teologicamente la grazia significa ricevere un dono gratuito – una salvezza concessa. Ma in Orecchio non c’è alcuna visione cristiana della realtà, pur non essendogli estraneo il senso del sacro. Ma appunto, quella sacralità è riservata tutta alla vita. Se non c’è un Dio che possa concedere all’uomo salvezza alcuna, quella stessa salvezza – quella grazia appunto – è vera solo nel momento in cui l’uomo riconosce di possedere un lingua che possa esprimere la realtà di ciò che ha vissuto: il suo peccato e la sua innocenza, la sua umiltà e ciò che quell’umiltà ha trasformato in umiliazione.
Per questo la grazia, per come ci sembra la intende Orecchio, è una forma di testimonianza. Eppure nessun uomo, ci fa capire continuamente il romanzo, è esattamente il testimone delle tragedie della storia. La grazia è, sotto questo punto di vista, una forma di resa. La tragedia di uomo che, spogliato anche della vergogna di trovarsi nudo di fronte agli occhi del mondo, testimonia la realtà di se stesso.