In scena al Teatro Astra di Torino
Il teatro muto
Con «Cinèma!» Beppe Navello fa il verso al film anni Venti con una favola/spettacolo dove si dimostra che a volta la fantastia è più potente della tecnologia
Uno dei problemi del teatro è che si vedono sempre i piedi degli attori. Questo impone agli interpreti un controllo totale e costante di sé senza avere la libertà di spaziare (dal punto di vista attoriale) sfruttando le varie parti del proprio corpo grazie alle inquadrature, come succede con il cinema o con la tv. In più, vedere sempre (sempre!) i piedi degli attori per terra dà allo spettatore teatrale quella dimensione di concretezza che è alla base del rito teatrale: stiamo vivendo tutti insieme qualcosa qui e ora, con i piedi per terra… Ricordo uno spettacolo di Peter Brook, per esempio, dove un lungo velo copriva, per buona parte dell’azione, i corpi degli attori lasciando visibili al pubblico solo i piedi e le caviglie degli attori. E devo dire che la trovata – geniale – non impediva la comprensibilità della vicenda che stava accadendo dietro al velo.
È per questo che sono sobbalzato sulla mia poltroncina al Teatro Astra di Torino quando, assistendo al divertente e ingegnoso spettacolo Cinèma! di Beppe Navello, ho visto una quinta mobile nera alzarsi da terra e coprire i piedi degli attori, bloccando l’inquadratura (in senso proprio) al piano americano degli attori: tutto, tranne i piedi e le caviglie. Ecco: è il teatro che supera se stesso e che abbandona la sua millenaria concretezza per farsi sogno.
Perché questa credo fosse l’intenzione di Navello quando ha progettato Cinèma! nel 2007 con la sua compagnia torinese della Fondazione Teatro Piemonte Europa e quando lo ha ripensato e riformulato, a dicembre scorso, per gli attori del Teatro Slaski di Katowice: raccontare un sogno con il linguaggio che, forse, gli è più proprio, ossia quello delle fantasticherie visive. E se il teatro è sempre più soggetto alle leggi (non solo di mercato), alle trame e alle mode del cinema, ecco finalmente un caso opposto, dove la scena fa il verso al cugino ricco smascherandone il segreto (nascondendo i piedi, insomma…). In un’ora di rappresentazione, cinque attori interpretano un vero e proprio film muto (temi e ambienti in perfetto stile Anni Venti) con una giovane povera che sogna di fare il cinema, una mamma un po’ arruffona che la spalleggia e una diva vera che si coalizza con loro due per umiliare due omaccioni che variamente tentano di usarle e che finiscono poveri e abbandonati mentre loro, le donne, celebrano il proprio trionfo. Una favola, insomma, con tanto di ombrelli rotti, panchine gelate e neve che cade fitta fitta, come si conviene a un film muto che si rispetti (senza contare le musiche di Chaplin che stanno lì a dare ritmo ai sentimenti e alle immagini).
Insomma, un gioco, anzi quasi una scommessa. Perché poi il sortilegio funziona sia per la bravura dei cinque attori polacchi (Natalia Jesienowska, Wieslaw Kupczak, Bogumila Murzynska, Agnieszka Radzikowska e Mateus Znaniecki), sia per la perfezione registica di quelle quinte mobili (come chiamarle altrimenti?) che volta per volta costruiscono le immagini tagliando gli spazi laterali o in alto o, come s’è detto, miracolosamente, in basso. Al punto che dopo solo qualche minuto di spettacolo ti viene da chiederti: come mai questi attori non si muovono a velocità eccessiva e a scatti come nei veri film muti (effetto del passo diverso dei proiettori di oggi, come è noto…)? Ah, già, siamo a teatro. Sia pure senza i piedi per terra.