Viaggio in Sicilia
Il miracolo dei santi
Dietro certi riti c'è una fede talmente atavica da essere sopravvissuta al cambiare delle religioni. Ne volete una prova? Andate a Catania per la festa di Sant'Agata
I suoi occhi brillano di un’antica sapienza, il corpo ricoperto di pietre preziose regalate dai sovrani nei secoli addietro le danno una parvenza regale. Mentre viene portata in processione, insieme al suo corpo racchiuso in una bara dorata, in un fercolo del metallo più prezioso, difficile non pensare che sant’Agata sia qualcosa di più di una semplice santa: agli occhi di un non credente come me, diventa quasi una divinità antica, mediterranea, forse il mare. Secondo la Chiesa, «la giovane Agata visse nel III secolo. Esponente di una famiglia patrizia catanese, sin da giovane consacrò la sua vita alla religione cristiana. Venne notata dal governatore romano Quinziano che decise di volerla per sé. Al rifiuto di Agata, la perseguitò in quanto cristiana e, perdurando il rifiuto della giovane, la fece martirizzare e mettere a morte il pomeriggio del 5 febbraio 251». Molti storici sostengono che già prima in città vi fosse una festa molto simile, forse dedicata a Iside. Sant’Agata si tiene da 4 al 6 febbraio è è considerata dall’Unesco «Bene Etno Antropologico Patrimonio dell’Umanità».
La cattedrale di Catania all’imbrunire ha riflessi blu che ricordano il colore del cielo quando il sole è ormai calato o il colore della lava in alcuni momenti della giornata. Il barocco trionfa in tutta la sua essenza, difficile non percepire tutti i suoi mille capricci architettonici. Di colpo la santuzza sbuca fuori dalla chiesa e il cielo si riempie di fuochi d’artificio, a ogni scoppio sono colori diversi che ammantano la sera di colori vivi. La gente corre, si accalca, per raggiungere il fercolo e consegnare il proprio cero. A volte si ha paura di essere schiacciati dai fedeli come avviene a certe feste induiste. Ogni cero è un desiderio, una speranza, un grazia da chiedere. Anche io negli anni passati ho chiesto le mie, ho domandato, per esempio, di invecchiare con qualcuno, e anche se non ha funzionato, a modo suo, come avviene per moltissimi fedeli, il rapporto con la Santa si è rafforzato nonostante l’insuccesso. Mi sono sempre chiesto perché un non credente come me avesse una venerazione così intensa per alcuni dei santi o delle Madonne dell’Italia più profonda, alla fine ho compreso che sento le forza di una fede talmente atavica da essere sopravvissuta al cambiare delle religioni. Alcune credenze sono talmente radicate che tutti i credi che si sono susseguiti le hanno dovute inglobare. È questo sentimento antico che io venero. I ragazzi vestiti con un “saccu” bianco corrono portando sulle spalle ceri che possono arrivare fino a al peso di 200 chili. Le fiamme, la cera che schizza dovunque, le loro urla, a volte di devozione, altre per allertare la gente del loro arrivo, riempiono l’aria. Camminare per via Etnea diventa un impresa fascinosa, ogni minuto si viene spintonati da uomini e donne che corrono con le loro enormi candele, difficile non avere dopo poco la cera sui vestiti o in testa.
Le fiamme che riempiono la via, le antiche preghiere dialettali, i ragazzi che mentre urlano si fanno spingere sullo stomaco dai loro compagni, ti trasportano indietro nei secoli: «Je taliatila che bedda, Javi du occhi ca parunu stiddi, e na ucca ca pari na rosa. Semu tutti devoti tutti?». Guardate com’è bella! Ha occhi che sembrano stelle, e una bocca che sembra una rosa! Siamo tutti devoti tutti? La notte catanese si tinge del giallo della cera e del fuoco e noi ci lasciamo avvolgere. Ecco di colpo comparire le dodici cannalore che rappresentano le corporazioni delle arti e dei mestieri della città. Questi imponenti ceri barocchi, pieni di putti e riferimenti al lavoro di ogni corporazione, dal peso che oscilla fra i 400 ed i 900 chili, vengono portati a spalla, a seconda del peso, da un gruppo costituito da 4 a 12 uomini, che le fa avanzare con un’andatura caracollante molto caratteristica detta ‘a ‘nnacata.
Un po’ affamati, andiamo a mangiare in una vecchia trattoria dove la proprietaria fa ancora la pasta fatta a mano. Finito di cenare decidiamo di fare un giro nel vecchio quartiere dei transessuali. Un ragazzo di colore ci ferma e ci dice di fare attenzione che la zona è pericolosa. Io dico agli amici di non preoccuparsi che ci sono stato molte volte. La zona è deserta, attorno a noi solo palazzi seicenteschi fatiscenti e sventrati da cui sbucano fuori gli ultimi trans che ancora resistono alla pressione della riqualificazione edilizia che li spinge verso le periferie. Il silenzio è tombale, il colore prevalente è il nero delle rocce laviche che spuntano tra i vicoli ricordando antiche colate. Di colpo torna la vita, siamo tornati su via Etnea, i ragazzi con i ceri e sant’Agata sono già passati, attorno a noi solo le migliaia di persone festanti. La gente si ferma a mangiare cibi di strada. Ci mettiamo a chiacchierare con un venditore di cedri e ne compriamo qualche piattino che mangiamo con gusto. L’odore della carne arrostita è dovunque, i fumi delle braci salgono verso il celo avvolgendo i balconi dei piani nobili dove molti guardano la processione senza mischiarsi con il popolo.
Decidiamo di raggiungere i ragazzi con i ceri, passiamo la santuzza che ci guarda con i suo occhi intensi. Il busto della santa, completamente in argento, ricordano gli storici «è stato realizzato nel 1376e contiene alcune delle reliquie di sant’Agata. Infatti nella testa, ricoperta da una corona donata dal re inglese Riccardo Cuor di Leone di passaggio a Catania di ritorno da una crociata, è stato inserito il teschio, mentre nel busto è inserita la cassa toracica. Il busto fu realizzato dall’artista Giovanni di Bartolo, su incarico del vescovo di Catania, Marziale, che esaudì un desiderio di Papa Gregorio XII ed è ricoperto da oltre 300 gioielli ed ex voto. Oltre alla già menzionata corona, si possono citare alcuni dei più importanti gioielli donati alla santa: due grandi angeli in argento dorato che sono posti ai lati del busto; una collana del XV secolo incastonata di smeraldi, donata dal popolo di Catania anche se molti attribuiscono questo dono al viceré Ferdinando De Acuna; una grande croce riccamente lavorata del XVI secolo; il collare della Legion d’Onore francese appartenuto al musicista catanese Vincenzo Bellini; croci pettorali appartenute ai vescovi di Catania, Dusmet, Francica Nava, Ventimiglia; un anello appartenuto alla regina Marcherita che lo donò nel 1881 nel corso di una visita a Catania». Per superare il fercolo e arrivare nella parallela di via Etnea dove sono i ragazzi con i loro ceri prendiamo una strada più lontana per saltare tutta la folla, aggirato l’ostacolo ci immergiamo in mezzo ai fuochi.
I devoti si fermano sotto alcune chiese sedendosi a terra con i gli enormi ceri accessi che sprizzano fiamme che ricordano le eruzioni dell’Etna e cominciano a urlare a squarcia gola le loro preghiere, alcune sono invocazioni personali, altre sono tradizionali. Molto spesso si chiede alla santuzza di pensare ai carcerati che non possono partecipare alla festa per renderle onore. I preti dopo po’, quasi rimproverano i ragazzi per il loro eccessivo zelo, gli ordinano di andarsene per lasciare spazio al gruppo successivo, che appena arrivato tenterà di dimostrare una devozione perfino maggiore.
Le ore passano, verso le quattro ci si raduna in piazza Borgo e inizia la lunga attesa. C’è chi chiacchiera, chi si arrampica sui tettini che coprono le fermate dell’autobus, chi si addormenta per terra, chi mangia o beve un birra. Alle cinque di mattina l’attesa comincia a farsi sentire e ognuno si inventa qualcosa da fare. Poi quando ormai si pensa che il momento tanto atteso non arriverà mai, eccola: la santuzza appare all’orizzonte. Si avvicina pian, piano, i ragazzi con le corde si mettono davanti a noi e cominciano il loro lungo lavoro. Alcuni fedeli continuano a portare i ceri da donare alla santa, altri attendono il magico momento.
Verso le sei tutto accade, la santa viene girata per tornare su via Etnea, in quel esatto momento un eruzione quasi violenta e interminabile riempie il cielo. I fuochi artificiali assumono un significato particolare, perché ricordano che la patrona, martirizzata sulla brace, vigila sempre sul fuoco dell’Etna e di tutti gli incendi. Per minuti e minuti fuochi, tra i più belli che si possano vedere scoppiano uno dopo l’altro senza tregua. In quei momenti è difficile non pensare che questo è il Paese che amo: contraddittorio, duro, a volte anche soffocante, ma di una bellezza di fronte alla quale viene da piangere per la commozione. Alla fine sarà il silenzio, la maggior parte della gente andrà verso casa, mentre i fedeli più ardenti continueranno ad accompagnare la santa che spesso non rientra nel duomo prima di mezzogiorno.
Le fotografie sono di Emanuele Luca