Il nuovo libro dell'autore de "La lucina"
Il caso è un romanzo
Un clochard e una ragazza: storia di un rapporto che nasce senza ragioni e senza ragioni finisce. È "Fiaba d'amore" di Antonio Moresco, il tentativo, non sempre riuscito, di scardinare le regole della ragione
Più che all’economica visione della fiaba come condensazione di un destino in una «sintesi di fatti» (così per Calvino), la Fiaba d’amore di Antonio Moresco (Mondadori, 2014) ci riporta alla definizione che (non ricordo più dove) ne diede Bufalino, come unione di un incantesimo con uno spavento. Ancora una storia paradigmatica (cos’era La lucina, se non una fiaba?) e ancora il racconto di un’autoesclusione, un congedo dal mondo (ne La lucina una landa lontana dai rumori della vita, qui la solitudine, come reciproca indifferenza, all’interno di una metropoli). L’incantesimo è quello dell’amore, lo spavento invece quello della morte. Ma procediamo con ordine.
Un vecchio pazzo che ha del tutto rimosso la sua identità passata vive adesso sul marciapiede, conduce una vita randagia, si lascia vivere, soggetto alle alterne fortune che lo stare in strada comporta. A vegliarlo, nella sua culla di cartoni e stracci, solo amico e custode, un colombo ferito («suo messaggero nel mondo»). Tutto scorre nella più profonda inedia, fin quando accade il fatto incredibile: una giovane ragazza incrocia gli occhi perduti del vecchio, se ne invaghisce, lo porta a casa a vivere con sé («Chi ti ha mandato? Tu chi sei? La vita o la morte?»). I due si amano e inizia così una nuova esistenza felice. Tuttavia, come prima era stato inaspettatamente scelto e salvato, in maniera non meno inspiegabile dopo un po’ viene allontanato dalla meravigliosa ragazza. Dinanzi al singolare enigma di esser stato toccato, per ben due volte, da un inspiegabile destino, s’incammina verso la città dei morti, mentre la neve ricopre tutto. A questo punto, in una trama all’insegna fino all’ultimo dell’inverosimile, accadrà l’ennesimo colpo di scena.
Dal «C’era una volta» dell’incipit al risvolto che sorprende («ma a questo punto, succede una cosa incredibile»), Moresco scrive nel rispetto degli elementi esteriori tipici del genere un’altra storia di corrispondenze: un Lui e una Lei singolarissimi (si rammentino l’uomo e il bambino protagonisti in La lucina); raccontando sempre da quella zona grigia di passaggio tra essere e non-essere, dove vita e morte coabitano e si somigliano («nella città dei morti non sai che sei morto, come in quella dei vivi non sai che sei vivo»); e anche qui assurto a solo teatro possibile/impossibile di un faticoso ritrovarsi. In una realtà metropolitana d’indifferenza e solitudine, di buio e silenzio, dove ciascuno è soffocato dal dolore, al punto di non saper più riconoscere l’amore. Nonostante il vecchio clochard porti il nome dello scrittore, la voce sconsolata di Moresco l’avvertiamo piuttosto nelle considerazioni del colombo sulla pena di tanto cercarsi e non trovarsi, sul germinare sempre, tra gli uomini, di un seme di solitudine, sulla congenita incapacità, appunto, di «inventare l’amore» («Come sono solo io … che devo far da tramite e devo far incontrare tutta questa vita e tutta questa morte, che devo essere il messaggero di tutto questo dolore e di tutto questo impossibile amore»).
Dalle plaghe di una siffatta desolazione l’amore, viene da chiedersi, secondo Moresco, è infine possibile? Sul finire della quarta di copertina s’incontra una felice definizione della fiaba fornita da Cristina Campo che la interpreta come «vittoria sulla legge di necessità». Ecco: potremmo dire che l’amore, nell’angusto universo moreschiano dai preclusi orizzonti, coincida con l’essenza della fiaba stessa. La lezione della fiaba è la lezione dell’amore; e la lezione dell’amore è la lezione della fiaba, transito a un diverso ordine di rapporti e nulla più. Questa la morale ricavabile dall’ultimo incunabolo di Antonio Moresco che però non riesce a bissare la compiutezza di narrato e discorso raggiunta con il precedente libro.