Nicola Fano
«Quando tutto questo sarà finito»

Famiglia Dix

Gioele Dix racconta un frammento della storia dei suoi: l'educazione alla solidarietà di un bambino (ebreo) nell'Italia fascista. Un libro sul futuro, più che sul passato

Gioele Dix è un mio amico caro: dovete saperlo prima di leggere queste mie riflessioni sul suo nuovo libro (Quando tutto questo sarà finito, Mondadori, 300 pagine, 16.50 euro). Ma arrivate fino alla fine, per favore, poi magari godetevi questo (bel) libro e giudicatemi. Io mi limito a qualche consiglio interpretativo, anche se Quando tutto questo sarà finito “si consiglia da sé”.

Malgrado il mio cognome, non sono ebreo: considero questa circostanza il mio personale peccato originale. Almeno fin da quando a tredici anni lessi Se questo è un uomo e la mia vita cambiò radicalmente. Quel che invidio degli ebrei (non sono pratico di cose religiose, di nessuna religione) non è tanto il senso di appartenenza (anche gli ultrà della Lazio sentono la loro appartenenza), bensì la potenza della loro identità condivisa. È qualcosa di antropologico e politico al tempo stesso – dal mio punto di vista – ossia qualcosa che noi generici “italiani” non abbiamo. Non abbiamo un’identità condivisa, nulla che veramente ci unisca e ci faccia sentire fratelli. Anzi: se è possibile molti di noi ritengono di possedere ragioni solo per sopraffare gli altri considerando la violenza l’unico modo attivo per distinguersi dagli altri.

Ovvio che questa “fratellanza” sia vissuta da tanti “singoli sbandati” (tali siamo noi altri italiani) come un pericolo, una zeppa nel motore del nostro egoismo così felicemente privo di solidarietà sociale. Per dire: vado spesso a passeggiare al Ghetto, a Roma, solo per vedere con soddisfazione che le persone lì non si salutano come altrove, ma si salutano davvero; s’auspicano reciprocamente, davvero, d’avere una “buona giornata” da condividere. Tutto questo, naturalmente, non ha a che fare in modo diretto con l’Olocausto: è molto di più dell’Olocausto. Non ne è la conseguenza (ci mancherebbe!, e non so nemmeno se sia vero il contrario…) e non resta limitato al corso del Novecento. E infatti di tutto questo (non dell’Olocausto in modo specifico) parla il nuovo libro di Gioele Dix. Anzi, mi pare che proprio ambientando la sua storia nel periodo delle leggi razziali in Italia, Gioele Dix abbia voluto tratteggiare la sua idea di identità condivisa. Nel senso che nel suo libro c’è chi è dentro una dinamica di “fratellanza” e chi ne è fuori. Non necessariamente gli uni coincidono con gli ebrei; di sicuro gli altri coincidono con i razzisti e con i codardi. Ma, per paradosso, direi che si tratta di un caso; di una pura strategia narrativa.

quanto tutto questo sara finitoVediamo. Quando tutto questo sarà finito racconta la storia di una famiglia ebrea travolta dalle leggi razziali (promulgate per felicità costituzionale in Italia nel 1938): il padre, ebreo fascista convinto e agiato, non ritiene di doversi preoccupare troppo finché le sue idee crollano sotto il peso dell’odissea che gli viene imposta. Ne consegue una lunga e sventurata stagione da sfollati, prima nelle pieghe di un’Italia in chiaroscuro, poi nei cantoni di una Svizzera accogliente e gelida al tempo stesso. Il libro finisce con la fine dell’odissea, con il ritorno; e con tutto il suo carico di amaro che farà del capofamiglia un uomo diverso e del giovane figlio (la voce narrante che all’inizio ha dieci anni) un uomo e basta. Con un fratellino perduto e una madre per sempre affranta, tra l’altro. Questa è la storia raccontata da Gioele Dix; che è quella vera, senza troppi infingimenti, di suo padre e suo nonno. Ma non dovete credere che si tratti di un libro sul razzismo contro gli ebrei (questo livello c’è, non può non esserci, ovviamente, ma non è preponderante), né di una testimonianza/denuncia. No. La materia è trattata come un romanzo di formazione: la formazione toccata a un bambino ebreo in Italia sotto il fascismo. Più che un’educazione sentimentale, un’educazione solidale: la testimonianza (stavolta questo termine si può usarlo) di una fratellanza di fronte alla quale viene sempre fatto di chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Ossia: se la solidarietà degli ebrei sia il loro modo di difendersi o se gli altri li abbiano secolarmente perseguitati proprio perché infastiditi dalla loro naturale solidarietà.

L’avrete capito: il libro di Gioele Dix è bello perché racconta una bella storia; perché la racconta bene (da buon teatrante, dà il meglio di sé quando mette in scena episodi corali); ma soprattutto perché ci mette sotto il naso una domanda che noi non-ebrei sempre più spesso cerchiamo di eludere («come dobbiamo comportarci con i nostri fratelli?») e che invece è la domanda cruciale anche di questo ennesimo millennio.

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