Visto ieri sera su Canale 5
Elegia romana
«La grande bellezza», il grande orrore e la grande contaminazione: il premio Oscar in tv sa molto di operazione commerciale. Con tutti quei non romani (Sorrentino, Servillo, Berlusconi) a dar lezione a noi romani...
Sapete chi era Gustavo Modena? Un attore, un attore ottocentesco repubblicano e rivoluzionario. Un grande attore shakespeariano che voleva fare l’Italia: il primo a sognare una compagnia “italiana”, quando l’Italia ancora non c’era. Ed era così amato e famoso che anni dopo, all’inizio del Novecento, Petrolini lo chiamò in causa per parodiare il “grande attore all’antica italiana”: «Gustavo Modena, Rossi, Salvini, stanchi di amare la bionda Ofelia, forse sul serio forse per celia, m’han detto vattene, con Petrolini, dei Salamini». Rossi è Ernesto Rossi, divo ottocentesco molto tradizionalista. Salvini è Tommaso Salvini, anche lui profeta dell’italianità. Petrolini è Petrolini e Gustavo Modena è lui. Ebbene, non mi ricordavo che nella prima scena della Grande bellezza Paolo Sorrentino, napoletano trapiantato a Roma, fissa la macchina da presa proprio sul busto di Gustavo Modena, al Gianicolo. Solo su di lui. Una dichiarazione di principio?
Anche io, come qualcuno di voi, ieri sera ho rivisto La grande bellezza. Ma mi sono morso la lingua davanti alla televisione per come l’orrore mi veniva presentato in livrea davanti agli occhi: uno spot di Valentino e uno di Acqua di Giò mi hanno dimostrato in diretta a quale “bellezza” si riferiva Sorrentino; quale bellezza amano gli americani che hanno premiato il film a Hollywood. Di qua una cartolina stereotipa di là un commercio di meraviglie. E un fruscìo di fronde, con uno squittire di gabbiani terragni (in tempo di pace) a far cultura orientale: perché anche noi romani siamo terroni, a nostro modo. Ma io mi sono sentito orgoglioso d’essere romano, uno dei pochi romani rimasti, chiosato dal napoletano saporoso di Toni Servillo e da quello spiccio di Carlo Buccirosso. Avrete visto, credo, la lunga scena in cui una valigia di chiavi antiche apre i segreti delle ville dell’Aventino che s’intrufolano tra le meravigliose luci del Cupolone: è una roba che a noi romani segna l’adolescenza. Non si può aspirare a una cotta o a un amore senza aver spiato da quei buchi. E Sorrentino lo sa.
«Roma mi ha molto deluso» proclama uno struggente Carlo Verdone. È l’unico romano in questa compagnia di giro, Verdone, mi sono detto. Possibile che solo lui se ne vada, deluso dalla mia città? Mi sono venuti in aiuto la giraffa dondolante dentro alla Basilica di Massenzio e Roberto Herlitzka: due citazioni precise, rigorose di un altro grande film su Roma, Otto e mezzo di Fellini. Possibile che oggi, Duemila e tot, ci sia qualcuno che si misura con Fellini? Sì, è possibile. E non sfigura: anzi Sorrentino dimostra di aver capito la lezione. Ossia – lo diceva Flaiano – che Roma la devono raccontare gli altri. Fellini romagnolo; Sorrentino e Toni Servillo napoletani. È destino che noi altri si sia una recita inconsapevole, marziani a Roma.
«Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente: ci posso riuscire io?» si chiede Jep Gambardella. Perché no? È con questo eccesso di auto-considerazione che si misura Paolo Sorrentino. Salvo che lui la sua scommessa l’ha vinta. Un film programmaticamente sul sopraggiunto nulla; come il sangue finto della perfomer che sbatte la testa sull’Acquedotto all’Appia. Ripenso a quegli spot di Valentino e Armani. E a Canale 5 che se ne fotte di essere la causa diretta del grande orrore che è diventato la grande bellezza e, all’indomani dell’Oscar, non si pone alcun problema a trasmettere in prima serata il film che la ridicolizza con quel suo tripudio di trenini e botulini. I pubblicitari avranno pagato bene le loro postazioni di riguardo. E il berlusca avrà brindato (se i medici lo consentono ancora a un vegliardo simile) agli zeri tintinnanti aggiunti del suo conto pubblicitario. Ecco, Fellini, Flaiano, Sorrentino, Servillo, Berlusconi: tutti a insegnare a noi romani come si sfrutta la nostra grande bellezza. Finché arriva una santa a soffiare in mezzo ai suoi pochi denti rimasti (unico appunto a Sorrentino: le bocche delle vecchie sdentate non sono così sode e protese all’esterno) per ridare vita ai sogni. E gli uccelli se ne vanno, a fecondare vita altrove, perché la mia Roma è morta, oramai. Ma solo noi romani ce ne siamo accorti. Gli altri ancora celebrano la grande bellezza: loro, solo loro possono ancora dire di volersene tornare a casa. La loro casa è altrove.