Un'avventura di montagna
Cantata dei pastori
Il racconto di una giornata e una notte in un luogo apparentemente fuori dal mondo: un alpeggio nascosto, dove ancora la natura la fa da padrona. Dando un altro senso ai rapporti umani
Decido di raggiungere Le Mandrie a piedi. È il 20 dicembre, c’è un vento gelido. Le nuvole sono addossate sulle cime più alte. Il resto del cielo è per lo più sgombro. Sono ricorrenti, qui, le incursioni fredde dai Balcani, che sebbene lambiscano appena questa parte degli appennini abruzzesi, meno esposti a nord est, ti fanno ricordare che siamo in montagna e che domani inizia l’inverno.
Ho accettato l’invito di un vecchio pastore a visitare le cosiddette Mandrie: luogo fisico e sociale dove i pastori di Ridotti istituiscono una comunità che ha come scopo la convivenza in alpeggio di un insieme di greggi di pecore, ciascuno dei quali può essere formato anche da tre – quattrocento capi.
Lascio le ultime case del paese e mi inerpico per il vallone, dove incontro un gregge che rientra. A governarlo è un ragazzo che conosco. Mi metto al suo seguito. La salita è faticosa, ci si ferma spesso. Nonostante lo sterrato sia comodo, basta una sola pecora che si metta a brucare qualche rovo che tutte le seguono. È più il tempo che si perde così. Andando spediti ci vogliono meno di due ore. Il pastore fischia ai cani. Abbaiano. Con veloci incursioni ricompongono le fila del gregge e tutto torna calmo. Rimango sbalordito della coordinazione tra i cani e il ragazzo. Qualche pecora ha la campana, per tutto il tragitto ho l’impressione di essere tornato nell’alto medioevo. Al tempo dei viatores che valicavano passi di montagna brulli, al suono di campanacci che ricordano la peste, per giungere in un nuovo villaggio o in qualche stazione di posta. Ogni tanto scambiamo qualche parola: «È da quando ho dieci anni che vengo quassù», mi dice. Mi racconta di quando provò a lavorare in fabbrica: «Ci andai per una settimana ma il rumore delle presse non lo sopportavo, e poi, mi mancavano le pecore. Sono uno dei pochi che fa il pastore a tempo pieno». A Ridotti, fino a qualche anno fa, quasi tutti possedevano un gregge.
Il cammino è faticoso. Matteo non mostra stanchezza. Non riesco a capire come faccia ad essere più lento di me ma a camminare di più. Ammiro la sua perizia nel saper scegliere il passo giusto tra gli spuntoni di roccia, a inerpicarsi come fanno le capre e le pecore che ci precedono. Abbiamo da poco iniziato la parte più accidentata. Non parliamo più. Ci si concentra. Dalle bocche esce il vapore della fatica e i rumori sono lontani. Il paesaggio cambia rapidamente. Se mi volto posso vedere con nettezza il profilo dei Monti Ernici, il passaggio chiamato Sambuceto, e più a ovest il Vallone del Rio: un tempo – l’unico passo agevole per la Certosa di Trisulti, dove c’era un’antica farmacia: quello che rimane oggi è un piccolo museo – bazar, gestito dai monaci cistercensi. Anche la vegetazione cambia: dagli ulivi ai ginepri, agli aceri. Poi inizia la faggeta, dove nella stagione propizia crescono le fragole di montagna. Siamo saliti molto, l’aria è diventata più rarefatta. Il cammino, che prima era stentato, ora diventa piacevole. La stanchezza è vinta dall’immaginazione. Una specie di stato ipnotico che non mi fa sentire più il dolore delle gambe e delle braccia. Siamo arrivati. La bruma ricopre gran parte di quello che si riesce a scorgere. Mi vengono in mente certi quadri fiamminghi; uno stato di angoscia mi pervade, misto a ricordi d’infanzia.
Il sole è sceso dietro il massiccio del Pizzodeta. Si sente un forte odore di stalle. È quasi l’imbrunire e una voce da lontano ci saluta: Non lo vediamo ancora, è Giovanni, qualche passo ed è lì e ci sorride, poi dice qualcosa in dialetto che non capisco. È tardi. Qui fa buio presto. Non c’è molto da vedere: il vento si è calmato e la luna piena rilascia una luce bianca che si posa sui bandoni di metallo, sui ripari delle pecore e sulle rocce. Entriamo nel rifugio. Già da fuori mi accorgo che non è quello che mi aspettavo. È costruito con bandoni di lamiera. Tutto qui è arrangiato, ma la pulizia e l’ordine non mancano. All’interno, da una parte, c’è una piccola cucina da campo; dall’altra, delle brandine per riposarsi. Giovanni prepara il caffè, io e Matteo ci accomodiamo su una panca. Le tazzine di porcellana e i cucchiaini in acciaio indicano che quel ricovero precario e maleodorante è per loro una seconda casa. Chiedo dei lupi, dello scompiglio che avevano portato qua sopra giorni prima, di cui ancora se ne parlava in paese e che mi aveva indotto ad anticipare questa visita, già da tempo in programma. Un silenzio prolungato mi fa capire che non è un argomento gradito.
Matteo sghignazza e dice che i lupi cattivi sono loro, i pastori. «Ma che ne sanno – aggiunge – quelli che vengono la domenica a fare i turisti e vogliono che gli si racconti solo una parte della storia!». Questi ha un piglio da eroe. A volte assume posture da film western. Si sente un personaggio di Ok Corral. Mi invita a provare il loro formaggio, poi si stende sulla branda e si mette a giocare con il telefonino. Il pecorino che fanno è molto buono. Ha un sapore forte, un profumo intenso e penetrante. È per intenditori. Questo formaggio rivela il loro modo di concepire la pastorizia. Non c’è spazio nemmeno per un presidio slow food: tutto qui è arcaico e sfuggente. Una archeologia di gesti e riti a cui manca una stele di Rosetta. Ne mangio un pezzo. Dall’occhio della fetta esce una lacrima d’olio, sento pizzicare la lingua. Poi inizia a farsi amare con una docilità inaspettata. L’aroma è avvolgente e ne vorresti ancora.
Giovanni mi dice che le caratteristiche di ogni formaggio dipendono da molte cose; prima di tutto però, dai pascoli. Poi aggiunge: «Ogni formaggio è figlio della propria terra, non puoi fare questo pecorino in un altro paese usando le nostre tecniche e le nostre abilità. Il segreto è nel latte, qui ci sono i migliori pascoli d’Abruzzo, fiori ed erbe che crescono solo qui». Il pecorino è anche un’ottima fonte di energia. Ha più di duemila anni di storia, è nelle Georgiche che Virgilio ne indica la misura che ogni legionario dovrebbe assumere per essere in forze: un’oncia, che corrisponde a circa trenta grammi.
È tardi, ce ne accorgiamo dai discorsi che facciamo, sempre più lenti e riflessivi. Dopo la conversazione sui lupi e sul pecorino ci corichiamo: la sveglia è prestissimo, prima dell’alba.
La mattina mi alzo ed esco dal riparo, i due sono già fuori che parlano fitto, testa a testa in un brusio ritmico, a stento riesco a capire cosa si dicono. L’odore forte di ammoniaca non lo sento più. Saluto i due pastori e riprendo il sentiero di ritorno. Scendendo noto margini di panorama che la salita mi aveva precluso. A sud c’è Sora, si vede Sancastro, dove nella sommità si scorge quello che resta della fortificazione romana. Decido di scendere verso una località chiamata il Campo, tragitto più breve ma in alcuni punti più impegnativo. La brina ricopre tutto, in alcuni punti mi sembra di camminare sulla neve. Tempo due ore, penso tra me e me, e non resterà niente. Più tardi scenderà il sole e salirà una pesante bruma. Finalmente in paese. Entro al bar e mentre prendo un cornetto, ordino un cappuccino. Claudio, il barista, mi fa: «Sento odore di pecorino, sarà che non ho dormito bene stanotte e ora ho le allucinazioni olfattive». No, gli rispondo. «Sono io che puzzo di pecora, ho dormito con i pastori, alle Mandrie». Poi continuo: «Dovresti andarci anche tu se soffri d’insonnia; ma il giorno dopo, mi raccomando, prenditelo di riposo!». Scoppiamo a ridere. Mentre scherziamo il bar si riempie di gente. Nessuno dice una parola, ma l’odore rustico di una vita dimenticata li fa tornare, per un attimo, con i piedi per terra.