Una (bella) disputa critica
Volponi & Calvino
Oggi il romanziere di "Memoriale" avrebbe compiuto novant'anni. Ci piace ricordarlo come un nevrotico calviniano. Tutto il contrario di come lo ha letto il grande critico Alfonso Berardinelli. Sbagliando di grosso, per una volta...
Capace, a ogni sua prova, di rivoltare tutto, forzare al limite (come in un esperimento) le condizioni di un serrato corpo a corpo con se stesso e con il proprio tempo, Paolo Volponi, avrebbe compiuto novant’anni il 6 febbraio. Stupisce quanto poco adesso sia letto: forse perché lo si considera, a torto, imbozzolato in una temperie precisa, all’esperienza al fianco di Adriano Olivetti, con il quale condivideva un’idea illuminata e democratica d’industria, al servizio più che del capitale della comunità. Se è vero che ha attraversato gli anni Sessanta e Settanta, mettendone in luce, con i suoi romanzi e anti-romanzi, snodi e contraddizioni del nostro Paese – il tramonto della civiltà contadina e l’epica della città, la fabbrica e il sogno di una utopia possibile, il conforto dell’ideologia e la schizofrenia del suo fallire e tramontare, l’autobiografia che (attraverso la letteratura) s’incarna in convulsa e bipolare storia collettiva – tuttavia, oggi più che mai giova grattare via l’etichetta, limitante, di autore il cui nome debba essere associato soltanto alla stagione della cosiddetta “letteratura industriale”.
Non è superfluo ricordare come Volponi nasca, prima di tutto, poeta, con ben tre raccolte (Il ramarro, 1948; L’antica moneta, 1955; Le porte dell’Appennino, 1960) a precedere il suo esordio: e come, attraverso la poesia, giunga (incoraggiato da Pasolini), con Memoriale (1962), al romanzo. Sperimentando toni e cadenze della cui eco rimarranno impastati anche i suoi palinsesti narrativi, memore della lezione introiettata dal gruppo di “Officina” (con in testa la triade Pasolini, Leonetti, Roversi), per i quali la poesia (e in genere la letteratura) somiglia a una lente d’ingrandimento puntata sulle ingarbugliate maglie della realtà, inesauribile cimento conoscitivo alla prova con una complessità che rifiuta ogni semplificazione.
C’è da chiedersi, piuttosto, cosa rimanga, a leggerli adesso, dei suoi romanzi. Come ha scritto Enzo Siciliano, Volponi ha spiato spesso se stesso nei suoi personaggi, nella conclamata nevrosi d’essi. La tisi (d’origine psicosomatica) dell’Albino Saluggia di Memoriale che nel mondo della fabbrica non riesce a trovare l’antidoto sperato a tutti i suoi mali passati e presenti, frutto d’inconscia contestazione che deborda verso la follia, la nevrosi appunto, tradisce l’operare di una zona di disagio, un senso intimo di rivolta e insieme di paura che appartennero, verosimilmente, pure allo scrittore. Così come l’utopia di trovare una dottrina che spieghi e motivi tutto, in maniera deterministica, del contadino-filosofo Anteo Crocioni protagonista de La macchina mondiale (1965), risponde al senso di ricerca, del nostro, di una improbabile quadratura tra piano naturale e piano sociale, esigenze dell’uomo e storia. Utopica disposizione ripresa, con mise en abyme anche a livello strutturale, in un romanzo polimorfo e incontenibile come Corporale (1974), e che l’insegnante ed ex dirigente d’industria Gerolamo Aspri vuole a tutti costi preservare e difendere costruendo un rifugio che ripari dalla catastrofe nucleare che sembra preannunciarsi prossima.
L’attualità di Volponi sta tutta qui: nel fatto che i suoi libri, anche a volerli disancorare da luoghi e situazioni, da particolari dinamiche sociali e culturali, dalla storia e geografia, insomma, che sottendono, non perdono di forza conoscitiva, non finiscono per ciò di suonare, per il lettore, rivelatori. Essendo decisiva, nella sua poetica, l’attitudine di fondo, l’atteggiamento ossessivo e nevrotico dinnanzi a una realtà sfuggente, non facilmente decifrabile, alla quale opporre sempre e comunque lo sforzo raziocinante d’una pratica letteraria promossa a mezzo (per nulla accomodante e consolatorio) di continua agnizione. Volponi, come Levi e Calvino del resto, riesce quindi scrittore utopico della complessità, inteso a rintracciare modelli utili a una cognizione stabile: ideatore di sistemi, schemi, metodi di volta in volta messi in crisi, aggrediti; alfiere, anch’egli, di un’etica della sopravvivenza, della resistenza.
Ecco perché mi ha fatto sobbalzare leggere, tempo fa, sul Foglio, un editoriale di Alfonso Berardinelli dedicato all’«umanista eretico» Adriano Olivetti e alla scommessa culturale rappresentata dal progetto delle Edizioni di Comunità (1946-1960), nel quale, Volponi, il solo scrittore olivettiano conosciuto dal critico, veniva battezzato, con troppa nonchalance, l’«anti-Calvino della narrativa italiana». E ancor più stupisce notare come, nel fornire in poche battute un agile medaglione dell’urbinate, Berardinelli assommi una serie di connotati che non lo distanziano poi tanto dal ligure: l’esigenza di muoversi a stretto contatto con il mondo fisico, la patologica ossessione del caos, l’utopia (anche qui chiamata in causa) di trovare «la misura aurea, ideale e reale, delle cose umane e dei rapporti fra mente e materia: sogno a cui segue la constatazione che tutto continuamente va fuori sesto e fuori misura»… Fisionomia intellettuale che si accorda con la ricerca epistemologica del secondo Calvino, quello che va dalla crisi de La giornata di uno scrutatore (1963) e dalla letteratura cosmica (Cosmicomiche, Ti con zero) alle prose meditative del signor Palomar.
Paradossalmente, miracoli della critica, nel tentativo di segnare un distinguo l’articolo mostra più di una cruciale tangenza, «analogie intuitive» come le chiama lo stesso Berardinelli, tuttavia non tanto tra la parabola intellettuale di Olivetti e Volponi, quanto piuttosto tra Calvino e colui che, più di tutti, ne rappresenterebbe la perfetta antitesi. Che Berardinelli sia stato, novello Cristoforo Colombo, ignaro scopritore di un principio di reversibilità nella critica? Perché si sa, adagio vecchio quanto il mondo, gli opposti si attraggono, talvolta fino a somigliarsi. Fuor d’ironia, i due si elidono, a ben vedere, solo se letti nella sterile dialettica di una prospettiva meramente ideologica, come ebbe a scrivere Raffaele Manica in Exit Novecento (2007), a proposito della pretestuosa contrapposizione “Pasolini contro Calvino” costruita nell’omonimo saggio da Carla Benedetti. E basterebbe accostare i singolari diari della crisi prodotti nei primi anni Sessanta dai due scrittori – Memoriale e La giornata di uno scrutatore –, per comprendere come la malattia di Saluggia-Volponi e l’impasse di Ormea-Calvino non siano così distanti come si sarebbe portati a credere.
Uniti, al contrario, da quel comune slancio di mettere a romanzo l’agire del seme di una nevrosi (attiva sempre, al limite d’un impulso masochistico) che diventa, per contrasto, grimaldello gnoseologico, coscienza critica del mondo, metodo d’attacco del reale («se la sua è nevrosi, in ogni nevrosi c’è del metodo e in ogni metodo, nevrosi», così il Calvino della Taverna, commentando la figurina shakespeariana del Matto, di Amleto); slancio utopico che si traduce in divisa di rinnovata eticità, nel solco di un umanesimo in minore che sappia chiudere i conti, finalmente, oltre che con la storia anche con la natura.