Al Museo Bilotti di Roma
Riscoprire Mafai
Una splendida mostra ripropone il tormento del grande artista che, alla fine della sua parabola, sentiì il bisogno di puntare sull'astrattismo. E così, adesso, Jannis Kounellis gli rende omaggio
Il primo incontro risale alla fine degli anni Cinquanta. Jannis Kounellis, 76 anni, padre fondatore dell’arte povera, allora appena ventenne, festeggia la sua prima personale in una galleria oggi entrata nella leggenda, la Tartaruga di Plinio De Martis. Da due anni si è trasferito a Roma dalla Grecia, è ancora in cerca di una sua cifra: dipinge grandi tele macchiate da lettere e numeri. A fine versissage lo avvicina Mario Mafai. Cinquanta anni passati, un maestro consacrato che si trascina appresso gli orrori della guerra, l’inquietudine per la società avida e distratta in pieno boom in cui non si riconosce più. Basta con i fiori secchi, le vedute di Roma, gli sventramenti della Roma fascista, i martiri della resistenza, i ritratti e gli scorci tonali, non ne può più di fare il cantore di un mondo in estinzione. Vuole intercettare e rappresentare le nuove strade su cui il mondo e la pittura, da Pollock a Burri, si sta muovendo. Ha iniziato il trasloco dalla figura all’astrazione subissato di polemiche. Anche gli amici, i compagni di strada di un tempo lo trattano come un traditore. I critici e i collezionisti lo snobbano. Solo e amareggiato sussurra, quasi parlasse a se stesso, al giovane autore italo greco di cui intravede il talento un consiglio: «Ricordati sempre che sei un pittore».
Nel 1964, un’anno prima della morte, Mafai presenterà un ampio repertorio delle opere del nuovo corso in un’altra galleria di prima linea, L’Attico, allora diretta da Sargentini senior. Tra i pochi commenti positivi quello di Argan. Molti invece i toni imbarazzi, i distinguo, i «non sei più come prima». «Come se un artista che cambia percorso non fosse sempre lo stesso. Resistenze di una Roma pigra, conformista, irrispettosa, fuori circuito, che oggi non è mutata molto. E stenta a riconoscere che la libertà, la difesa della propria libertà espressiva, è il sangue di ogni vero artista», spiega Jannis Kounellis, che quattro anni dopo, nel ’68 – altra coincidenza – avrebbe trovato il suo trampolino di lancio nella stessa Galleria, l’Attico (che nel frattempo aveva cambiato sede, un garage al Flaminio, e scettro di conduzione passato al figlio di Sargentini) mettendo in mostra un gruppo di cavalli.
Da questo prologo di destini incrociati, sintonie e trasgressioni parallele di artisti di generazioni diverse, evocato come chiave di regia dal curatore Bruno Corà, ha preso la corpo la mostra, con cui il museo Bilotti di villa Borghese torna rivisitare il Mafai ultima maniera. E Kounellis gli rende omaggio con un allestimento d’autore, che le aggiunge ulteriori richiami. Una scenografia d’arte povera: le pareti fasciate da lastre di metallo rugginose e tagliate da mensole, già usate in altre istallazioni, sulle quali al posto dei cimeli che abitualmente aggiunge a completare l’opera, Kounellis ha sostituito una trentina di quadri di Mafai, recuperati dalla figlia Giulia e altri collezionisti. Ma senza rispettare gerarchie di stile e di ordine cronologico. Ritratti e paesaggi anni Trenta e Quaranta alternati a grandi tele dell’ultimo periodo che abbandonano ogni riferimento figurativo e sfruttano come traccia visiva corde sfilacciate e ritagli di carta abrasiva incollate sullo sfondo. Vedute geometriche dei tetti di Roma affiancate da rielaborazioni dello stesso tema risolte in grovigli di segni, che si trascinano echi dell’action painting alla Pollock.
Un contrasto solo al primo colpo d’occhio spaesante, perché questo incontro ravvicinato voluto da Kounellis conferma, ad uno sguardo più paziente, che lo scarto è solo apparente: la mano e l’impronta creativa di Mafai restano le stesse, identico l’impianto cromatico, quella dominante di ocra e colori chiari e gessosi che ricorre nei quadri tonali e in quelli informali da sangue e voce agli innesti materici, alle pennellate più rapide e impastate, alle colature. In meno solo il vincolo esplicito del racconto, in più un senso forte di desolazione, di angoscia, inquietudine. «La voglia di mio padre – spiega commossa Giulia Mafai – di andar oltre, aggiungere altre riflessioni, altre parole alle grida di dolore dei quadri con cui rileggeva la bestialità della guerra, la brutalità del regime. Dar altro peso al senso di solitudine dei fiori e delle nature morte, che continuavano a commissionargli, inchiodandolo alla ripetizione, alla maniera. Andar oltre, ma senza mai abbandonare la strada maestra della pittura».
L’effetto funziona, trasforma in un evento di riscoperta questo canto del cigno maltrattato e incompreso. Dieci anni fa una grande antologica su Mafai a palazzo Venezia confinava questi stessi quadri astratti in due sale a fine percorso, quasi come scantonamenti bizzarri, divagazioni in campi altrui. E ne aveva lasciato scivolar via ogni impatto. Qui al museo Bilotti queste opere ci parlano in modo diverso, reclamano nuova attenzione. Rivendicano senso profetico, attualità, originalità che non sfigurano al confronto con altri maestri coevi dell’astrazione che la storia dell’arte ha incoronato.