Esposizione al San Michele di Roma
Penombra di donne
Un libro e una mostra riportano l'attenzione su una grande fotografa, Sebastiana Papa, che con il suo obiettivo, nei monasteri del mondo, ha cercato di fissare la dimensione femminile della sua essenza più assoluta
Da quando negli anni Sessanta ha iniziato a registrare i riflessi del suo sguardo sul mondo nel piccolo grande specchio della sua Leica Sebastiana Papa (1932-2002) si è interrogata e ci ha costretto ad interrogarci sul senso misterioso e sfuggente della vita, del sacro, dell’essere donna. Così forte e intensa l’urgenza di queste domande da riconsegnarcele come testamento dopo che la morte ha interrotto la sua ricerca, i suoi viaggi, i ventidue libri, le mostre, che ne consacrano la carriera e il suo anomalo tragitto di fotografa fuori tendenza.
Lo fa con un volume pubblicato, a dodici anni dalla sua scomparsa, dalla casa editrice Postcart (465 pagine, 75 euro) su impulso dell’assessorato alla cultura della Provincia di Roma che ha finanziato l’impresa, dell’Istituto centrale per il Catalogo, che ne aveva rilevato in donazione l’archivio, e di due amiche, una filosofa e una giornalista (Katrin Tenenbaum e Ella Baffoni), scelte a notai delle sue ultime volontà, alle quali nel suo letto d’ospedale aveva esposto e affidato il progetto. Tutto pronto: un menabò definito in ogni dettaglio, dal taglio delle foto alle didascalie, dai caratteri fotografici ai testi da includere, ai capitoli con cui scandire il racconto. Ma poi c’è voluto un lavoraccio di abnegazione, fatica e di anni per smuovere l’inerzia della burocrazia, rintracciare uno ad uno i quattrocento e passa negativi per la stampa, trovare miracolosamente un sostegno economico, forzare le tappe fino alla presentazione ufficiale del libro e alla piccola mostra, in scena per tutto febbraio nelle sale del San Michele, che ha sigillato l’evento.
Le repubbliche delle donne. Il titolo, anche questo imposto dall’autrice, è a suo modo uno manifesto di intenti. Con quel termine, repubbliche, voluto a battezzare quelle singolari comunità femminili, che sono i monasteri di monache, unici luoghi dove l’autonomia delle donne si manifesta come totale esperimento di vita. E con quel plurale a segnalare che la ricognizione sul campo è estesa a tutte le confessioni. Dai monasteri dei tibetani esuli insieme al Dalai Lama ai monasteri cattolici. Da quelli ortodossi in Estonia, Egitto Gerusalemme a quelli cattolici in vari luoghi d’Italia. Denominatore di tutte queste donne votatesi al loro Dio, è la spoliazione progressiva, il camuffamento con l’adozione del velo o la tonsura della propria identità per adattarsi alla regola della comunità. «La rinuncia alle prepotenze dell’Io per cercare, a volte raggiungere la perfezione del Sé», annota in un suo appunto Sebastiana Papa, confessando il punto di vista , più da umanista psicologa che antropologa, che avvicina la sua sensibilità laica, decisa a trovare alternative al rumore del mondo, alla ragioni più profonde di quei corpi, di quei volti, di quelle storie che ha immortalato con la macchina fotografica, in un bianco e nero che sfrutta un solo artificio, quello della luce.
Ogni foto un rispettoso, rigoroso avvicinamento all’anima, al respiro interiore del soggetto con cui sta dialogando, perché solo con chi entra davvero in contatto Sebastiana Papa si concede di usare il filtro, il dispositivo, comunque estraniante, della sua macchina fotografica: l’inquadratura, la messa a fuoco, la regolazione del diaframma. Per questo in nessuna delle sue foto le donne che sta riprendendo si mettono mai in posa, anche quando si schierano insieme per un’istantanea di gruppo. Per questo in ogni volto a parlare sono soprattutto gli occhi, le labbra, sorridenti o distaccate, e i gesti. Ogni immagine è la sintesi di uno scambio, di un patto in qualche modo alla pari. Da una sua visita ad un monastero in Etiopia non conserva e non mostra che qualche scatto: troppo vistosa, stridente, svilente le appare la miseria di quelle donne che si trova di fronte e il prezzo che impone alla loro vita. Sebastiana Papa non racconta l’umiliazione. È sull’umiltà che però sofferma il suo sguardo. In tutte le sfumature. Nei momenti di gioco o preghiera, nei rituali del cucinare, del coltivare, del cucire, del mangiare, del lavorare e concedersi insieme una sosta: una trama di piccole abitudini in cui coglie l’espressione più intensa, invidiabile, forse, della loro scelta di vita, del loro uniformarsi alla legge della comunità. Narrazioni che le sue foto immergono in un silenzio armonioso. Penombre di candele accese o di raggi di sole da cui Sebastiana Papa allontana volutamente – è il suo messaggio di intellettuale e di artista – ogni frastuono. Nell’immagine di copertina una monaca agita, com’è il suo compito, il batacchio all’intero di una campana. Deve uscirne un suono assordante, ma il fuoco è tutto puntato sugli occhi sereni, ridenti di quella donna.