Visioni contromano
Ombre sulla schiavitù
Il film sulla schiavitù di Steve McQueen con un grande Chiwetel Ejiofor è molto compiaciuto. Troppo, per essere una riflessione credibile su una immane tragedia della storia
Le numerose candidature agli Oscar ricevute da 12 anni schiavo del regista Steve McQueen dimostrano che tutto sommato anche un film “sbagliato”, ammesso e non concesso che un film si possa così definire, può ambire all’eccellenza dei riconoscimenti. Ammesso e non concesso che gli Oscar possano così definirsi. La regia del celebratissimo omonimo del protagonista de La grande fuga è elegante ma anche molto compiaciuta, il che per una storia che affronta un argomento così importante come quello della schiavitù è davvero un peccato mortale. Gli sguardi quasi camera look del protagonista Solomon Northup interpretato dall’intenso Chiwetel Ejiofor, sono in realtà gli sguardi complici del regista, che non resiste alla tentazione di suggerire la sua bravura, la sua consapevolezza estetica, che però diventa estetizzante.
Se da una parte la bravura degli attori, Benedict Cumberbatch e Michael Fassbender (giustamente candidato come miglior attore non protagonista) su tutti, restituiscono al film la necessaria credibilità, dall’altra una sceneggiatura superficiale, modesta e approssimativa ne decretano una sostanziale debolezza. Non sappiamo se l’intenzione del regista fosse quella di raccontare “una” storia di schiavitù per raccontare “la” storia della schiavitù, processando la singola vicenda in modo da farla diventare paradigmatica. Certo è che, come è già stato osservato, gli schiavi non erano affatto così remissivi come vengono raccontati, erano bensì costantemente alla ricerca di una emancipazione civile e non solo, e grazie alla Underground Railroad (1810-1850), e all’appoggio degli abolizionisti, avevano la possibilità di fuggire verso il nord del paese dove la schiavitù non esisteva più. Questo tema (ricordiamo che i fatti si svolgono nel 1841) è appena sfiorato, anzi, viene mostrato all’inizio della storia quando Solomon viene rapito alla sua condizione di libertà.
12 anni schiavo rimane pertanto una storia piccola di un dramma immenso, e non riesce ad emanciparsi da una costruzione minima che non diventa mai paradigma. Al contrario ad esempio di Amistad di Steven Spielberg, che attraverso una banale questione sul diritto di proprietà (di una spedizione di schiavi) si arriva, come suggerisce Giovanni Rizzoni ne La Democrazia al cinema, ad affrontare «questioni che toccano direttamente principi essenziali del costituzionalismo (come quelli della divisione dei poteri e della indipendenza del potere giudiziario) e, con essi, le stesse basi della giovane polity americana. Nella sottotrama delle vicenda giudiziaria il film ci fa intravedere un montante conflitto ideologico destinato a dividere in misura sempre più netta i rappresentanti degli Stati del Nord da quelli del Sud». La pellicola di Steve McQueen si limita ad essere un film, magari perfino più accattivante di Amistad, rimanendo però lontano anni luce da ogni pretesa di pedagogia di una qualsivoglia storia della schiavitù e dello schiavismo. Resta da stabilire se queste fossero le non intenzioni di un così presuntuoso regista.