Il teatro nel Mezzogiorno
Lontanissimo Sud
Un'amara riflessione (dall'interno) sulle mancate politiche di investimento culturale in Sicilia. E sulla totale assenza di prospettive di una "risorsa" mal sopportata dai partiti
Oggi, in piena crisi economica e d’identità, anche il settore, tanto elogiato a parole, delle attività di spettacolo dal vivo soffre per le mancate politiche culturali. Soprattutto a sud. Il tanto amato quanto “lontano” sud. Sì, perché nel sud isolano e isolato, l’assenza di una lungimirante politica oggi si paga più di quanto si potesse immaginare.
Impugnata dal commissario dello Stato la legge finanziaria della Regione Siciliana, l’intero settore si ritrova dall’oggi al domani con i fondi azzerati. Si occupano i teatri istituzionali, e a occuparli non sono i giovani precari dello spettacolo tenuti ai margini del mercato, ma gli stessi dipendenti pubblici di questi teatri (che però, va detto, costano terribilmente soltanto per rimanere aperti al di là della programmazione). Le orchestre protestano (ma le gestioni costano anche cifre esorbitanti) e cenerentola delle cenerentole, il settore privato a vocazione pubblica rimane ai margini o comunque poco considerato da chi governa, salvo poi accorgersi, numeri alla mano, che è quello più redditizio per lo Stato che finanzia (contribuzione ex enpals, – oggi purtroppo inps – iva, tasse, e indotto produttivo). Recriminare in tempi di crisi è di cattivo gusto! La Fiat se ne va e tu pretendi che s’investa in Cultura?
Ma dobbiamo immaginare un paese diverso? E allora raccontiamoci un po’ di favole, lavoriamo d’immaginazione astratta: cosa sarebbe potuta essere, ad esempio, la Sicilia se si fosse fatta una politica d’investimento culturale?
Cominciamo dalle normative, la Regione Siciliana (un esempio specifico ma importante per parlare di sud) si è dotata nel lontano 1985 di una legge (44) per il finanziamento delle associazioni concertistiche. Una legge lungimirante che ai tempi consentì il consolidamento di una rete di associazioni concertistiche diffondendo la cultura musicale classica, contemporanea e jazz nel vasto e complesso territorio siciliano. Una normativa davvero innovativa per il valore del dispositivo giuridico: mettere un po’ d’ordine con parametri e paletti, togliendo margini e campo alla discrezionalità clientelare della politica. Nel corso degli ultimi anni però quella legge è stata via via svuotata di finanziamenti divenendo un fantasma scheletrico della buona legge che fu, e oggi, dopo essere stata criminosamente inserita nella “mitica” tabella H (tabella di finanziamenti disparati in odor di clientele), è a zero.
Poi nel corso degli anni, anche il sistema dei finanziamenti europei si è dissolto in progetti faraonici (circuito del mito), spesso scollati dal territorio, dalle esigenze di un mercato che lavora con largo anticipo e dal settore professionale privato, spesso a vocazione pubblica, del tutto ignorato.
Nel 2007 anche il settore del Teatro e della Danza ha ottenuto una legge di settore, una rarità per le regioni italiane. La legge 25 del dicembre 2007 finalmente ha messo ordine alla discrezionalità e al modus operandi clientelare di sempre della Regione Siciliana. Regole, parametri, rendicontazione, insomma professionalità che, su una copia sbiadita dei regolamenti ministeriali, cercano di privilegiare la produttività del settore privato a vocazione pubblica, garantendo sostegno certo. Ricordo le parole lungimiranti dell’assessore dell’epoca che disse: «Sono contento di questa legge, con poco meno di 4mln di euro (questa la dotazione finanziaria di quell’anno, inutile dire che si è notevolmente ridotta nel corso degli anni) sostengo lo sviluppo di un settore che dà lavoro e garantisce una fitta programmazione in tutto il territorio regionale». Probabilmente la felicità dell’assessore era dovuta al fatto che 4,5 milioni di euro non sarebbero comunque bastati nemmeno a garantire gli stipendi di uno dei tanti enti pubblici della regione.
Quegli stessi enti pubblici che oggi, indignati, occupano e protestano. Per carità, massima solidarietà alle professionalità, alle maestranze e ai musicisti, forse un po’ meno ad alcune rivendicazioni sindacali che oggi appaiano assolutamente anacronistiche rispetto alla situazione economica, considerando anche che spesso queste grandi istituzioni hanno una programmazione deboluccia (due concerti in una settimana, quando va bene…); ma il vero punto è qual è il progetto per la Cultura? Nessuno. Cosa si è fatto? Nulla.
Non si è messo ordine al sistema clientelare dei teatri pubblici (oggi direzione e vicedirezione di uno stabile costano quanto il finanziamento di due teatri privati!), non si è fatta una scelta di decentralizzazione dell’offerta culturale, non si è creato un circuito serio (e non ad uso esclusivo delle grandi istituzioni pubbliche) capace di diffondere la creazione nelle periferie e di garantire una programmazione densa su città e territori. Non si è adottata una politica dei bandi diffusa e sinergica. Non si è capita la potenzialità del settore dello spettacolo dal vivo sia per le sue ricadute turistiche che per quelle formative. Non si sono assegnati spazi, lasciando spesso morire progetti interessanti che sarebbero potuti crescere grazie ad investimenti sinergici pubblico-privato. E cosa si farà? Speriamo qualcosa…