Alla scoperta di una brava poetessa
L’educazione poetica
Con la raccolta "Avere trent'anni" Federica D'Amato attraversa in versi una sorta di simbolica linea d'ombra oltre la quale c'è una nuova coscienza di sé
C’è un momento preciso, un preciso giro di boa, prima sponda dei giorni, nel passaggio dalla giovinezza estrema all’età adulta, per il quale è sempre tempo di bilanci. Quando, tramontata l’innocenza, si declina verso una impura e ruvida coscienza dell’ergersi, come canne al vento, al crocevia dell’essere. Da questa prospettiva muove la nuova silloge di Federica D’Amato, Avere trent’anni (Ianieri Editore, 2013), la sua terza, dopo La Dolorosa (2009) e Poesie a Comitò (2012), segnando una fondamentale cesura rispetto alle cose passate dove ancora appariva concentrata sulla modulazione del canto e l’ossequio ai maestri.
Un libretto smilzo, tutto teso tra introflessione ed estroflessione, a contornare la «tragedia» dell’intraducibile, cui consegna una scrittura sì autobiografica, ma di un’autobiografia ctonia, presentata come un orizzontale e simultaneo Bildungsroman in versi. Ché, se a trent’anni «accade proprio questo» – le «rocce fioriscono di memorie» -, si tratta di un epifanico aggallare di concrezioni profonde: una memoria, dico, costruita in oppositivo contrappunto al dato esterno cui ogni singolo lacerto rimanda; sincopato balbettio nel quale passato e presente, dipanato il filo, giacciono sulla stessa linea, gettando un’ombra indivisa, a formare il solo orizzonte possibile da cui affacciarsi sulle ferite del vissuto. E di questa deformazione s’innerva l’intero «poemetto spezzato e delirante», se anche i versi espunti da La corsa dei mantelli di Milo De Angelis e posti in esergo, vengono riproposti al lettore così come si sono cristallizzati nella memoria poetica della D’Amato.
Più che a un «anacronismo degli spazi interiori» (come scrive Luigi Trucillo nella bella ed empatica postfazione d’accompagnamento), questo quaderno assomiglia a un regesto di dissonanze, orchestrate con atonale disposizione, senza tuttavia rinunciare al gusto di una certa cantabilità che non di rado affiora. Discrasie: crepe che generano dall’io superficiale del poeta, agnizioni che principiano dallo specchiarsi in un “dentro” in cui un attimo vale un anno, un istante trent’anni; e «la prima riga [ha] sempre cento anni». E nell’attimo stesso in cui irrompe il pensiero poetante, s’imprime il verso, s’accampa un barlume di senso nel deserto, nell’arsura di memoria nuova e consapevole, nel tempo scorsoio del presente. Un «entrare nel tempo», nell’amplificata eco della sua durata, fino a vederlo contrarre e, quasi, svaporare: questa l’utopia circolare, lo slancio conoscitivo del quale, quasi in presa diretta, la D’Amato vuole mettere a parte il lettore.
Apprendistato che ha come approdo una dolorosa quanto necessaria solitudine («e poi c’era questo dover crescere / a tutti i costi / imparare a stare soli»), l’interminata ferita, da provare a suturare solo con la scrittura dei giorni («scrivo con una poesia in tasca / per non essere solo»). Nell’impeto stenografico del verso (con l’insistito ricorso all’enjambement, all’anafora, al chiasmo) che si sforza di tener dietro all’esangue desiderio di un bilancio esistenziale senza sconti, il massimo che è concesso è il fragile traguardo di mezze risposte, verità in sedicesimo. Come questa, semplicissima: «dopo trent’anni devi solo imparare / a volerti bene».