Luca Fortis
Lettera dall'Iran

Le notti di Teheran

Dal finesettimana sugli sci alla gita nel deserto, dalle discoteche della capitale alla povertà delle donne della campagna. Diario di un viaggio nelle contraddizioni iraniane

Di fronte a me la montagna sale ripida verso i quattromila metri, la neve farinosa si vaporizza sotto le tavole dei ragazzi in snowboard. I miei occhi cadono sulle gobbette della famosa pista nera di Shemshak, rimango colpito dalla difficoltà del tracciato e desidero ardentemente mettere alla prova i miei sci. Dopo pochi minuti mi sto divertendo come un matto, mi infilo tra le gobbe formando percorsi tutti miei. La musica house, che proviene da uno dei rifugi, attira il mio sguardo, le ragazze prendono il sole senza velo mentre i ragazzi chiacchierano. Li raggiungo e mi offrono una birra illegale. L’aria è fredda, i sette gradi sotto zero si sentono tutti. Dopo un po’ ci fumiamo una cannetta e ridiamo per qualche minuto. Mi torna la voglia di sciare e scendiamo a valle per riprendere la seggiovia. Sotto di me passano a tutta velocità le tute coloratissime dei sciatori locali e rimango colpito dai capelli delle ragazze che sfiorano il vento mentre loro percorrono le discese. La Persia è prima di tutto colore, una gioia di vivere che sa nascere dalle durezza delle pietre. La giornata è finita, prendiamo la macchina e cominciano a percorrere i tornanti che tagliano la roccia desertica per tornare a Teheran.

Iran5Il colore torna protagonista guardando i volti delle ragazze che camminano per strada. Piccoli foulard coloratissimi intonati a borsette all’ultima moda, lasciano intravedere splendide e curatissime ciocche di capelli. La forza delle ragazze iraniane è infinitamente superiore a quella di qualunque donna occidentale: per essere libere devono valere due volte un uomo. Il colore che un tempo veniva dipinto negli affreschi di Isfahan, che per secoli ha tinto i vestiti dei nomadi, che per millenni ha tessuto le trame dei tappeti persiani, è ben vivo nelle mise delle ragazze di Teheran. Contro tutto e tutti le figlie dell’Iran sanno combattere per la loro libertà negata.

Iran3Lascio la capitale e parto con un amico per Yazd, antica città della Via della Seta da cui passò anche Marco Polo. Le torri del vento svettano verso il celo, la città, tutta costruita in paglia e fango, rappresenta uno dei massimi capolavori della via verso la Cina. Le sue mura racchiudono un mondo senza tempo in cui è facile oziare in una meravigliosa decadenza. La notte ci fermiamo ad ammirare la moschea del venerdì il cui portale di maioliche blu, turchese e bianche, da cui partono due minareti, si slancia verso il cielo con un potenza inaudita. Un antico grattacielo che a volte può sembrare una rampa per due missili proiettati verso lo spazio. Il silenzio, l’aria gelida e il leggero nevischio favoriscono la meditazione. D’un tratto due ragazzi parcheggiano una macchina e si vanno a sedere sotto il portale. Hanno l’aria benestante e colta, li osserviamo. Hanno un che di tenero, dopo un po’ ci salutano e se ne vanno. Io ed il mio amico ci osserviamo e ridiamo, abbiamo la netta impressione di avere disturbato una giovane coppia di ragazzi gay.

Proseguiamo il nostro giro notturno per le vie deserte del centro storico, le luci gialle illuminano le torri del vento, gli archi, le moschee e gli antichi portoni. Per un attimo il tempo torna a essere prezioso, la produttività spietata, vera religione di una falsa rappresentazione della modernità, passa in secondo piano e si ha tempo per riflettere sul senso della vita. Passiamo le serate sdraiati su tappeti in antiche case, mangiamo, beviamo tè, fumiamo narghilè, mentre parliamo con i nostri amici iraniani dei loro sogni di libertà.

Proseguiamo il nostro viaggio verso il deserto, qui le pipe d’acqua vengono sostituite dalle droghe tradizionali fumate nelle antiche città in fango. Il deserto sa essere insospettabilmente intrigante. Vivo dentro di me tutta la profonda contraddizione di ritrovare me stesso in un Paese in cui i ragazzi combattono disperatamente per quelle libertà che noi diamo colpevolmente per scontate. Loro sognano il nostro mondo, io per capire il valore della mia libertà ho invece bisogno di essere loro fratello, di sentire tutta la loro disperata lotta per ottenere il diritto di essere diversi.

Iran1Parto con il mio amico per Isfahan. I mosaici di ceramica delle moschee della città formano, tassello dopo tassello, calligrafie e disegni geometrici che ti travolgono in un’ipnosi che ti avvicina a Dio. Difficile non sentirne la potenza, anche l’ateo più sereno sulla faccia della terra difficilmente non sarebbe rapito dalla poesia dell’architettura savafide. I mosaici di ceramica blu, turchese, gialla e rossa, formano mondi in cui ogni singolo pezzo è prezioso e insostituibile nella sua unicità, ma allo stesso tempo assume significato solamente in rapporto con gli altri: un po’ come gli essere umani, ogni persona è un universo a sé il cui mondo non avrebbe senso senza il rapporto con gli altri. I colori ipnotici di Isfahan, gli affreschi safavidi, le poesie medievali piene di gioia di vivere, vino, amori, musica, guerre e momenti di pace, raccontano di un universo ricco e aperto al mondo, una cultura che, nonostante la dura realtà di oggi, ogni persiano continua ad avere nel suo dna. La dolcezza delle persone che si incontrano, la loro voglia di conoscere e condividere, a volte commovente, nasce proprio da questo essere stati per secoli un crocevia di culture, una terra di passaggio che ha sempre coniugato la fierezza per la propria cultura con l’essere aperti al mondo esterno. Ecco perché non c’è nessuna cappa ideologica moderna che possa frenare gli iraniani dal conoscere il mondo, anche al costo di mettere a rischio la propria vita.

Iran2Lasciando Isfahan, mentre guidiamo nel deserto ci fermiamo in un piccolo paesino, le cupole di fango assumono forme tutte loro, la neve che le ricopre dona un che di poetico alle antiche architetture plasmate dall’arte innata dei contadini locali. Qualche albero qua e là, una torre che si regge in piedi per miracolo, una casa padronale abbandonata da molti anni dal suo nobil signore, non vi è nient’altro se non il silenzio. In mezzo alle case, in parte crollate, un canale crea tante piccole vasche che riforniscono d’acqua l’agglomerato. Tutto intorno la neve e l’aria limpida donano colori magici che vanno dal bianco al blu tenue. Di colpo una vecchietta tutta imbacuccata nei suoi veli rompe il silenzio per lavare delle rape nell’acqua. Una scena dal sapore antico che per un attimo ti fa perdere nei secoli.

L’arak e la vodka scorrono a fiumi, le droghe passano di mano in mano, la musica riempie l’aria. Le ragazze hanno mise sensuali e all’ultima moda, le scollature sono generose e le gonne corte. I ragazzi dalle camicie aperte, vestititi in modo elegante, ballano con loro o chiacchierano. La notte di Teheran è solo all’inizio e loro lo sanno.

Le fotografie sono di Emanuele Luca

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