Anna Camaiti Hostert
Lettera dagli Usa

Italiani immaginari

Gli italiani d’America sono sempre fieri di esserlo, mentre quelli che vivono in Italia quasi si vergognano. Perché? È una questione di cattive politiche, di immaginario condiviso e, soprattutto, di pessima classe dirigente

Nei 25 anni passati avanti e indietro tra l’Italia e l’America mi sono chiesta più volte perché gli italiani d’America sono sempre così fieri di essere italiani, mentre gli italiani che vivono in Italia quasi si vergognano di esserlo. L’ovvia risposta è che gli italiani/americani, come si chiamano oggi più correttamente gli italoamericani secondo lo studioso Anthony Tamburri che sul trattino che separa le due nazionalità ha scritto un saggio di grande popolarità negli States, hanno in mente il paese delle loro origini, ma vivono in un altro dove le cose funzionano. Dunque l’Italia, più che un paese vero, per loro è un paesaggio dell’anima legato all’ immaginario collettivo della memoria. E pertanto non può avere pecche e contraddizioni perché come un corpo addormentato giace immobile nel ricordo salvo svegliarsi quando la necessità lo richiede. Ma è anche vero che ultimamente l’Italia è finita sulle pagine dei giornali per i suoi scandali, per le sue crisi, per il suo malgoverno e per la sua corruzione. E dunque gli americani di origine italiana sono informati sulla situazione, ma continuano ad amare il paese delle loro radici, non solo per il passato, ma anche per il presente. A che cosa sono così legati affettivamente?

All’arrivo in Italia ho chiesto al poliziotto che mi ha controllato il passaporto perché ai cittadini italiani non rivolgono quella bella espressione che alla frontiera in America l’officer della dogana pronuncia quando un americano rientra a casa «Welcome home!». Con mio grande disappunto il poliziotto mi ha risposto: «Signora noi ci abbiamo anche provato, ma nessuno ci considera!». Ed io mi sono chiesta: perché gli italiani non riescono ad essere felici e fieri di esserlo? Come se il benvenuto a casa più che un’espressione di affetto facesse rinascere il dolore di un’appartenenza non scelta, ma imposta.

Salvo poi quando si vive all’estero rivendicare le nostre peculiarità quelle che ci rendono unici e apprezzati nel mondo: dal nostro modo di vivere a  quello di vestire e di mangiare , a quello di arredare le nostre case e di passare il tempo libero. Anche piccole cose quotidiane a cui siamo abituati e a cui non facciamo più caso quando siamo in Italia, come l’aroma e il sapore della tostatura del caffè espresso, quello della pasta al dente e non affogata in una salsa di pomodoro troppo speziata, quello del pane appena sfornato e dei nostri vini, dei cornetti caldi, del cappuccino non troppo forte e non troppo grande.  Ed è certamente tutto ciò che, oltre a quello inconfessato degli italiani, specie se all’estero, anima l’affetto degli italiani/americani e li fa sentire fieri. Con questo non voglio rivendicare l’orgoglio nazionale di un’appartenenza legata ad un passato che non amiamo, ma l’affetto verso un’identità composita e spesso fatta di contraddizioni anche insanabili che la rendono così ricca e da cui alla fine sono scaturite le sue caratteristiche più nobili. Qualcosa a cui siamo abituati, con cui siamo cresciuti e che ci manca quando viviamo fuori d’Italia. La vergogna viene invece quando andiamo ad esaminare la sua classe dirigente che non sembra essere il frutto di questa ricchezza e che almeno fino ad ora,  sin dall’Unità d’Italia, ha dato di sé costantemente, specie negli ultimi tempi, un esempio tra il patetico e il vergognoso. Come se il potere (politico), come una carta moschicida, attirasse nella propria trappola i rappresentanti eletti dal popolo e li trasformasse schizofrenicamente in qualcosa di completamente diverso dalla complessità di quell’eleganza e di quel saper vivere che compongono la nostra identità e li facesse divenire ladri e delinquenti comuni nemmeno tra i più raffinati.

Ecco, questo è ciò che andandocene dall’Italia vogliamo lasciarci indietro, qualcosa a cui non siamo affatto affezionati, di cui non solo non sentiamo la mancanza, ma che vorremo dimenticare. E che invece vivendo in Italia siamo costretti ad affrontare ogni giorno nei suoi mille riverberi burocratici, nei lacci e lacciuoli che strozzano quella creatività che caratterizza i tanti nostri talenti e ne impedisce lo sviluppo pieno e incontrastato. Tanto che molti devono emigrare all’estero. Ma perché la classe dirigente di un paese deve prendere il sopravvento sulle tante qualità e sfaccettature di un’identità così ricca obbligandoci a smorzare l’affetto che proviamo per le nostre tradizioni e la nostra storia? E perché questo accade solo in Italia e non in altri paesi? Negli Stati Uniti ad esempio dove ultimamente la classe politica, specie prima di Obama, non ha dato grande prova di sé e dove storicamente ci sono state  gravissime mancanze sul piano razziale ed economico, l’amore di quei cittadini per il loro paese è immutato e la gioia di farne parte, intatta. E così a  volte sono anche capaci di esprimere leader politici di grande valore. E non certo per orgoglio nazionale. Infatti la bandiera lì serve solo per coagulare i brandelli identitari di molti popoli e molte etnie che si ritrovano insieme a celebrare le potenzialità per ognuno di realizzare i sogni e di essere felice.

Forse però noi italiani anche se non abbiamo nella dichiarazione di indipendenza the pursuit of happiness  dovremmo recuperare prima di tutto la gioia dei nostri talenti e delle nostre tradizioni passate e presenti, mettendo in secondo piano quelli così scarsi di una classe dirigente mediocre se non addirittura criminale. E dovremmo farlo non solo recuperando una solidarietà ormai perduta, ma anche una capacità di sentire gli affetti e le passioni che tanto valore rivestono al fine della creatività. Perché solo così saremo in grado di esprimere una classe dirigente che rispecchi la vitalità di questo paese. E visto che in questi giorni è in corso un avvicendamento politico importante  auguriamo al giovane leader incaricato di guidare il nuovo governo di essere capace di ribaltare questo immaginario collettivo che fino ad oggi fa vergognare molti di essere italiani.

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