Lettera dall'America
Incubo americano
Per molti il "sogno" si è trasformato nel suo contrario. Delusioni, immoralità e fallimenti sono temi ricorrenti nella società Usa. Come dimostrano i tanti film dedicati a tutto ciò: da "Nebraska” a Scorsese, da Ferguson a Spike Jonze
Pochi giorni fa, un’altra sparatoria. Questa volta in un centro commerciale in Maryland. Ci sono stati tre morti e alcuni feriti. Lo sparatore è un giovane teenager che non si capisce ancora bene perché l’abbia fatto. Si sa solo che era infelice e insoddisfatto della propria vita. Ma a questo punto poco importa. Ormai è diventato un refrain quasi quotidiano. Sembra un bollettino di guerra. Ed effettivamente lo è. La facilità con cui si possono comprare armi in America è una concessione alla potente lobby che difende il diritto al loro possesso sulla base del secondo emendamento della Costituzione in un paese dove l’abuso di sostanze stupefacenti e la malattia mentale non costituiscono un deterrente al loro acquisto. E dove le numerose voci, senza contare quella del presidente, che si levano ormai quotidianamente contro la loro vendita indiscriminata continuano a passare inosservate.
La domanda che viene spontanea dopo i tanti fatti cruenti che sempre più spesso insanguinano i luoghi pubblici e che non hanno nessuna giustificazione è: perché? E di conseguenza: perché parte della società americana è preda di una smania di falsa sicurezza basata sul possesso delle armi? Perché non si vede chiaramente che il loro uso massiccio conduce ad un’esasperata violenza che si estende a macchia d’olio e che viene perpetrata senza un motivo e generalmente contro persone innocenti? Questi interrogativi rimandano allo stato generale di salute di un Paese che per certi versi non riesce più a trovare quella spinta propulsiva che ha alimentato i sogni di intere generazioni. Qual è il male oscuro che ne scuote le fondamenta e lo rende così fragile? Per me, come per molti altri americani che continuano ad amare il loro Paese, è un dolore enorme vederlo dibattersi con convulsioni che ogni giorno lo debilitano sempre di più e aggravano questa sua condizione generale di sofferenza. E la domanda scaturisce non per una sorta di malcelato orgoglio nazionalistico che vuole questo Paese forte e dominante, ma piuttosto perché le sue origini e, seppure con alti e bassi come magistralmente ha sottolineato Hannah Arendt, la sua storia di democrazia e di capacità di realizzare i sogni degli individui, lo hanno reso unico nel mondo.
Oggi questi pilastri sembrano vacillare sotto il piombo delle armi che come giocattoli di morte finiscono nelle mani di giovani squilibrati e infelici. E soprattutto sotto il peso di un’anima malata e infelice. Con buona pace di Kant che non era interessato al raggiungimento della felicità e affermava che una costituzione non lo deve sancire tra i suoi principi, the pursuit of happiness, affermato invece nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, ha animato e continua ad alimentare le speranze di intere generazioni. È alla base di quel sogno americano che racchiude molti valori e non solo quello materiale e materialistico del benessere economico, come erroneamente, specie all’estero semplificando il problema, molti pensano. È invece un motore alla realizzazione dei sogni che ogni individuo coltiva interiormente siano essi economici, oppure espressione della creatività o infine desiderio di giustizia sociale. Non dimentichiamo le parole di Martin Luther King, «I Have a Dream».
E dunque cosa fa ammalare questo desiderio di sognare e l’aspirazione ad essere felici? È alla cultura popolare di questo paese che bisogna rivolgersi per capire meglio cosa sta succedendo e cosa sta provocando questa malattia del vivere quotidiano. E soprattutto al cinema.
In un piccolo film di Robert de Niro del 1993 intitolato Bronx, c’è un’espressione che riassume meglio di molte altre quello che rappresenta il sogno americano. Non a caso la pronuncia un padre che, rivolgendosi al figlio per cercare di riportarlo sulla retta via, gli ricorda «che la cosa più triste nella vita è il talento sprecato. Puoi avere tutto il talento del mondo, ma se non fai la cosa giusta, non succede niente». Questa spinta propulsiva sembra oggi rallentata e fiaccata sotto il peso di una crisi economica di portata epocale che sebbene stia migliorando ancora azzanna ferocemente le vite di molti lavoratori, sotto quello della radicalizzazione della lotta politica che determina un imbarbarimento del tessuto sociale e sotto quello più generale della perdita della speranza che qualcosa possa cambiare. Come se fosse subentrato un fatalismo che fa ammalare l’energia vitale di questo paese e ne blocca la circolazione. Un misto di cinismo e indifferenza verso le difficoltà degli altri che viene trasmesso dall’alto, dal mondo della politica e della finanza.
Quest’ultimo in particolare, apparentemente intoccabile, diviene sempre più potente, è privo di qualsiasi scrupolo, è dotato di una rapacità senza precedenti ed è, più di sempre, totalmente disinteressato alla sorte della maggioranza dei cittadini che si dibattono tra mille problemi cercando semplicemente di sopravvivere. E soprattutto, e questo è il male peggiore, è in grado di determinare come non mai gli indirizzi economici e dunque di influenzare la vita di ognuno di noi. E ciò trasmette un senso di impotenza che erode la capacità di sognare, ma soprattutto di sperare, esasperando la solitudine della maggioranza, il cosiddetto 99% che ogni giorno cerca di sbarcare il lunario e invece non ce la fa ad arrivare in fondo al mese. L’esempio dell’1% che diventa sempre più ricco e più indifferente provoca rabbia e frustrazione e avvelena la capacita di solidarietà tra le persone che tradizionalmente è una delle caratteristiche di questo paese.
Ci aveva già dato parlato della finanza di Wall Street, Charlie Ferguson (nella foto) nel suo bellissimo documentario Inside Job del 2010 dove, oltre a spiegarci chiaramente le dinamiche della crisi del 2008, ci dava un’immagine allarmante e davvero poco incoraggiante di quel mondo, del suo smisurato potere di influenza sull’economia e della sua totale amoralità. Questa malattia del sentire che indebolisce l’entusiasmo di chi vuole ancora sognare proviene da molti fattori ed emerge da alcuni film di recente uscita che sono i paradigmi indiziari di questo malessere.
L’ultimo film di Spike Jonze Her (nella foto) racconta la storia di un giovane timido e melanconico, Theodore, (Joachim Phoenix) che per vivere lavora per una società online Beautiful HandwrittenLetters.com dove scrive lettere per altri individui. Nel momento in cui viene lasciato dalla moglie si rende conto di essere molto solo. Ambientato in un prossimo futuro a Los Angeles che in realtà è una Shanghai dai colori rarefatti e grigi, il film racconta la storia di un uomo che ha pochi amici e si rifugia nei videogames. Strumenti questi ultimi, detto per inciso, che oggi possono essere molto pericolosi perché’ basati in massima parte su una violenza senza precedenti che fa uso di armi di tutti i tipi, influenzando pesantemente le menti giovani, facilmente impressionabili e ancora in formazione degli adolescenti. Un giorno Theodore decide di rivolgersi ad una società informatica che gli fornisce un sistema operativo personalizzato, una sorta di intelligenza artificiale cosciente che ha la voce sensuale e vellutata di Scarlett Johansson. Il suo nome è Samantha. Così Theodore si innamora di Samantha. Fino a quando…
Sebbene l’idea non sia nuova (ci aveva già pensato nel 1986 anche se con intenti molto diversi Marco Ferreri, nella foto, con il film I love you) sono le circostanze che la rendono assai particolare. Indicativo di uno stato di malessere sociale il film denuncia una solitudine cosmica che si estende a macchia d’olio e che, complice una tecnologia avanzata, trasforma gli individui in monadi senza porte né finestre sempre meno inclini a rapporti con gli altri. Anche a quelli fisici che non sono più essenziali a definire la nostra umanità, ma diventano accessori che possono essere trascurati. Anche se il finale lascia ancora sperare è chiaro durante il corso della storia che la fisicità in questo frangente può divenire pleonastica, immateriale, parentetica. È il sogno di un’eternità (lasciatemi dire tutto maschile!) che supera anche le barriere della materialità temporale. È la testimonianza di una solitudine giunta all’estremo dell’isolamento. Il film ha una fotografia che riflette questa impressione di claustrofobia e allo stesso tempo di impossibilità di comunicare con l’esterno. La solitudine è il tema ricorrente.
Un altro film, totalmente diverso da questo, si sofferma su un diverso tipo di solitudine: quella dei vecchi. È Nebraska di Alexander Payne (nella foto). Girato in bianco e nero in un Midwest livido e grigio, simile a quello di About Schmidt, il film rappresenta la storia di un reduce della guerra di Corea, Woody (Bruce Dern), ex alcolizzato, alle soglie di una demenza senile che ne compromette la capacità di giudizio. Un giorno riceve una di quelle lettere standard che gli annunciano che ha vinto un milione di dollari in Nebraska. È chiaro fin dall’inizio che è una truffa, ma non c’è verso di convincerlo e l’uomo è pronto ad andare a ritirare il suo premio a piedi dallo stato del Montana dove vive. Il figlio (Will Forte) a cui in passato aveva dedicato poco tempo e poca attenzione lo accompagnerà in questo viaggio lungo e complicato che è anche un viaggio iniziatico negli affetti e nella solitudine di un rapporto trascurato. È una commedia amara che si prende gioco della rappresentazione dell’idea del pursuit of happiness, intesa come raggiungimento del benessere economico. Ma il regista si prende gioco anche di una superficiale idea dei valori della famiglia e del sogno che la fortuna prima o poi arriva. Il risveglio è brutale e al centro del film c’è una solitudine che con il passare degli anni tutti siamo destinati ad affrontare, ma che tuttavia sembra trovare una compensazione proprio nella giustificazione dell’esistenza attraverso il recupero profondo degli affetti veri. Payne mostra un senso di pietas e di amore per i suoi personaggi facendo intravedere un filo di speranza alla fine del tunnel.
C’è un’energia sotterranea in questo film che cattura e commuove e che esalta il vero significato del pursuit of happines. Un’energia che può anche divenire, e questo non è affatto il caso del film in questione, distruttiva se si scarica su altri esseri umani la cui esistenza diviene semplicemente inessenziale. Gli individui si isolano sempre di più sviluppando atteggiamenti di paura nei confronti dell’altro, una paura che alla fine si scarica sul gruppo tradizionalmente più debole e più tartassato di questo paese: i neri. I quali hanno sì dalla loro la protezione di una legge sui diritti civili, ma non quella contro le paure e le insicurezze che albergano ancora nell’immaginario collettivo delle parti più retrive del paese. Il fantasma del razzismo si esercita anche nei confronti di un presidente che è vittima di posizioni pregiudiziali solo per il colore della sua pelle. Cosi i neri sono preda di una violenza indiscriminata, sia a causa della loro emarginazione dal tessuto sociale, sia a causa della facilità con cui si possono acquistare quelle armi che nelle mani delle gang divengono strumenti di morte principalmente nei confronti di altri neri che o sono vittime innocenti che si trovano per caso a incrociare il piombo di una guerra insensata tra poveri o sono membri di altre gang. E quando alcuni di loro cercano di alzare la testa e cambiare vita ci pensa l’autorità costituita a riportarli sulla traiettoria sbagliata o a eliminarli dalla scena per sempre.
È la storia raccontata nel piccolo film indipendente Fruitvale Station (nella foto) tratto da un fatto vero dove al protagonista, un giovane nero di Los Angeles che per amore della sua famiglia persegue il sogno di una trasformazione, viene tolta ogni speranza e alla fine anche la vita. Semplicemente per un’insensata perquisizione della polizia nella metropolitana. L’inessenzialità delle vite umane, delle vite degli altri e l’eccessiva importanza della propria abbinate all’avidità di beni materiali è l’altro grande problema che affligge parte della società americana. Qual è il prezzo da pagare per coloro che vogliono diventare o sono diventanti ricchi, che ce l’hanno fatta? Il totale disprezzo dell’altro, la gioia che deriva dal poterlo imbrogliare, gli eccessi che porta un’immediata ricchezza e un cinismo che non riconosce più neanche i limiti della propria fisicità.
Questo il tema di un altro grande film americano recente The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (nella foto). Che esaspera le caratteristiche del mondo finanziario e gli eccessi ad esso legati in una commistione di sesso, droga e smania di potere. Tratto anch’esso da una storia vera, quella di Jordan Belfort, il film è difficile perfino da guardare e propone un’immagine iconoclastica, come solo Scorsese sa fare, di un mondo in completa putrefazione dove si è perso completamente il senso dei limite e della decenza, ma che date le sue fondamenta e i suoi sviluppi era destinato, ammicca il regista, ad arrivare a questo punto. I suoi gangster di piccolo cabotaggio hanno fatto fortuna e da Mean Street passando per Good Fellas e per Casinò sono arrivati a Wall Street. Non sono più degli outlaws, detengono un potere ufficiale, legittimo, legale: guidano la finanza e indirizzano l’economia influenzando negativamente il clima sociale. Hanno realizzato un sogno americano al negativo. E forse è proprio questa la malattia che stravolge questa cultura. Il quadro globale infatti è quello di un paese malato che necessita di una trasformazione epocale sia sul piano del governo dell’economia sia su quello della giustizia sociale. Qualcosa che questo presidente, tra enormi difficoltà, sta cercando e cerca costantemente di fare. Qualcosa che deve partire però anche dagli individui e che può avvenire solo attraverso il recupero del sentire e dell’etica nei rapporti interpersonali. Bisogna ritrovare quell’afflato di solidarietà verso gli altri esseri umani che in passato aveva animato e reso vitale questo paese e che è l’ingrediente fondamentale dell’espressione e della realizzazione del talento personale e del raggiungimento di traguardi individuali e collettivi. Perché’ questo è il significato vero del pursuit of happiness e il tessuto di cui sono fatti i sogni. Quello americano incluso.