"Cronache di piombo e di passione"
Il giornalista laico
Vittorio Emiliani ha scritto un libro nel quale racconta la sua esperienza (tormentata) al vertice del "Messaggero", il quotidiano romano che egli mantenne lontano dai partiti
Anni terribili possono essere entusiasmanti. L’ossimoro è spiegato – sin dal titolo – nel recente libro di Vittorio Emiliani Cronache di piombo e di passione, dedicato agli anni che trascorse al Messaggero, tra il 1974 e il 1987: a renderli entusiasmanti fu proprio la passione.
Così come fece in Orfani e bastardi – Milano e l’Italia viste dal Giorno, nel quale raccontava l’epopea del quotidiano fondato da Mattei sotto le direzioni di Baldacci e di Pietra, in Cronache di piombo e di passione (Donzelli, 361 pagine, 34 euro) Emiliani non si limita a narrare la sua personale esperienza prima di inviato e poi – dal 1980 – di direttore del Messaggero, ma racconta anche il Paese e la Capitale in quegli anni turbolenti nei quali la nostra democrazia sembrò in pericolo.
Nel 1974 il terrorismo rosso ha già cominciato a tracciare la scia di sangue che marcherà un decennio abbondante. Di lì a poco quella follia rivoluzionaria si concretizzerà in un cupo quotidiano bollettino di morte, culminando nel rapimento e nell’omicidio di Aldo Moro e nella strage della scorta. Il terrorismo nero ha già inaugurato la “politica delle stragi”, che proseguirà in quegli anni con la bomba alla stazione di Bologna e con l’attentato al treno 904 a San Benedetto Val di Sambro. I terroristi dell’estrema destra ingaggeranno inoltre una funesta competizione con quelli rossi sul terreno delle esecuzioni. A cadere sotto il piombo dei Nar sarà, nel 1980, anche il tipografo del Messaggero Maurizio Di Leo, 34 anni, scambiato per il giovanissimo cronista Michele Concina, autore di inchieste sull’estrema destra. Un momento drammatico, per il giornale. Emiliani ricorda che il pomeriggio in cui Di Leo viene commemorato, nei locali della tipografia, gli altoparlanti «trasmettono i discorsi in una via del Tritone gremita di folla fino a piazza Barberini». Tantissimi romani sono scesi in strada in segno di solidarietà con il loro giornale.
Non era un fatto insolito: in quegli anni moltissimi italiani si mobilitarono in difesa della democrazia opponendo un fermo “no” al terrorismo di ogni colore. E la passione politica e civile ebbe il sopravvento su quella che Sergio Zavoli definì la “notte della Repubblica”. Questa storia si dimentica, o si ignora, nella rappresentazione che di quel periodo offrono oggi i giornali, il cinema, la televisione, così come si trascura che tante leggi importanti furono votate in quegli anni o confermate da referendum vinti con maggioranze indiscutibili: il divorzio, l’aborto, la legge Basaglia per l’apertura del manicomi, quella sull’equo canone e altre ancora.
La stessa passione civile animava la redazione del giornale e a volte si traduceva in laceranti dibattiti interni. E’ quanto avvenne in occasione del rapimento del giudice Giovanni D’Urso «prelevato», com’erano soliti dire i terroristi, nel dicembre del 1980 e rilasciato, più di un mese dopo, grazie alla pubblicazione da parte del Messaggero e di altri giornali di alcuni documenti delle Br. Il confronto tra la “linea della fermezza” e quella “umanitaria” spaccò la redazione finché Emiliani non decise in solitudine di assumersi la responsabilità della pubblicazione.
In quegli anni, oltre al terrorismo, c’era la loggia massonica P2 con i suoi disegni eversivi, l’inflazione a due cifre, il terrorismo internazionale (l’attentato alla Sinagoga di Roma, il dirottamento dell’Achille Lauro), il terremoto dell’Irpinia… Tuttavia ciò non impedì al giornale, sotto la direzione di Emiliani, di sviluppare iniziative che avevano – anche – la funzione di alleggerire il clima pesante del tempo. Come le “biciclettate” realizzate per rivendicare la creazione di piste ciclabili in città, le “ramazzate” per sollecitare una maggiore pulizia di Roma, la campagna “Aridàtece la Befana” per ottenere il ripristino della festività soppressa dell’Epifania. Iniziative che rinsaldarono il legame con la città.
Le copie vendute a Roma arrivarono a 150.000, a oltre 300.000 quelle complessive. Quando Emiliani si era seduto alla minuscola scrivania che era stata di Mario Missiroli aveva ereditato un giornale che vendeva poco più di 200.000 copie e con i conti drammaticamente in rosso. «O riusciamo a risanarlo o dobbiamo venderlo», gli aveva detto Mario Schimberni, a capo della Montedison proprietaria della testata. Emiliani, avendo come formidabile coéquipier il condirettore Silvano Rizza e forte del sostegno di ampia parte della redazione, soprattutto quella più giovane, riuscì nell’impresa facendo del Messaggero un quotidiano vivace e critico, di sinistra ma non pregiudizialmente schierato, popolare e autorevole al tempo stesso, molto attivo in quel genere di giornalismo che oggi pare dimenticato: l’inchiesta.
Tuttavia lo stesso Schimberni lo licenziò sette anni dopo: il segretario della Dc Ciriaco De Mita – con l’assenso di Craxi e Martelli – ne aveva chiesto la testa. La linea “laica” del Messaggero aveva rappresentato sempre la vera insidia nella navigazione di Emiliani. Nel commiato a lettori e redattori scrisse: «Sono entrato a via del Tritone pulito, e senza la benedizione dei partiti, e pulito ne esco».
A chi – come chi scrive – ha lavorato in quel Messaggero, resterà dopo di allora la consapevolezza di aver percorso anni drammatici ma professionalmente avvincenti e stimolanti, in compagnia di buoni maestri. Anni di piombo e di passione, appunto.