«Il desiderio di essere come tutti»
In fondo a sinistra
Francesco Piccolo si racconta senza filtri. E senza filtri racconta il fallimento di un'illusione che ci voleva migliori e invece ha finito per farci sentire peggiori. Ma la parabola da Berlinguer a Berlusconi non basta a trasformare la realtà in romanzo
Quando morì Berlinguer avevo nove anni, ma non ne serbo memoria. Stessa età aveva più o meno Francesco Piccolo quando intuì per la prima volta la sua vocazione comunista, al 78° minuto della partita di calcio Germania Est-Germania Ovest dei mondiali tedeschi di München ‘74, nell’attimo esatto in cui il centravanti della DDR Sparwasser regalò l’inattesa vittoria alla sua nazionale. Lo apprendiamo dal nuovo romanzo dello scrittore e sceneggiatore casertano, a mezzo tra autofiction e personal essay, dal titolo eloquente e pretenzioso, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013), allusione a quello slancio, pur nella solitudine e nella diversità, a far parte di una storia, un destino condiviso (come chiarisce la citazione tratta da Natalia Ginzburg posta in esergo).
Con questo libro Piccolo paga pegno alla sua appartenenza politica, concedendosi al sottogenere dilagante dell’autofiction assai in voga negli ultimi anni, per cui, per ciascuno scrittore, in assenza di idee, giunge il momento di mettere sulla pagina la propria biografia, incorniciandola ad arte e condendola q.b. di perplessità politico-esistenziali, come ulteriore autocertificazione di verità. Piccolo offre la sua personale «rivisitazione dei fatti privati e pubblici», impugnando al rovescio il cannocchiale, secondo un percorso che tiene conto «dello sguardo di ora più che del pensiero di allora», facendo seguire all’archeologico scavo memoriale una troppo esibita ricostruzione a bocce ferme (forse il limite più evidente del libro). A fare da spartiacque i due personaggi simbolo degli ultimi quarant’anni di storia italiana: Berlinguer e Berlusconi; la «vita pura» ai tempi del primo e quella «impura» nel più recente famigerato ventennio. Facendo l’elastico tra privato e storia pubblica del nostro Paese, Piccolo racconta la difficoltà di «stare in mezzo», diviso tra comunismo e sentimento borghese della vita, desiderio di purezza e incalzare della ragion pratica del compromesso, ossessione per l’impegno e valvola di sfogo d’una superficialità da estirpare, e dalla quale ha creduto, sempre, di doversi affrancare e difendere, nell’apprendistato per diventare un perfetto intellettuale di sinistra.
Sulla soglia di questa scomoda frizione d’opposti oscilla il pendolo del racconto: così che il genetico sentimento di purezza, l’arte nobile della sconfitta associata a un granitico complesso di superiorità, da sempre incarnato dal popolo della sinistra, si ribalta, riletto attraverso la vicenda personale dello scrittore, nella storia di fatto di un’emancipazione; il sollievo di liberarsi da un così ingombrante partito preso per scoprire, in fondo, che l’«impuro» è forse il solo plausibile «modo di stare al mondo». Proprio in quell’idea di «purezza come destino» sta il senso greve d’una retorica sulla quale s’è fondato il carico d’una presunta superiorità etica e morale e che, al massimo, è riuscita a incarnare una dispotica ortodossia, una falsa supponente coscienza, dalla quale fosse impossibile svicolare. Il non capire di essere dentro al quadro di rovine, sempre e comunque, di appartenere a quel paesaggio umano e morale di macerie (e in uno dei passaggi più limpidi del libro, Piccolo rammenta, a riguardo, la lucidità di Goffredo Parise).
La rottura del diaframma tra pubblico e privato è insomma la chiave di volta per rileggere la storia politica italiana attraverso i suoi protagonisti, dal compromesso storico fino agli anni del berlusconismo; passando per lo snodo fondamentale dell’affaire Moro (a partire dall’intoppo dell’ambiguo interferire delle due sfere nelle famose lettere inviate dalla prigione di via Montalcini). Non facciamo fatica a condividere la critica al muro di gomma del pensiero unico di una sinistra arroccata sempre e comunque nel fortino dei principi, al quale rispondere con la concretezza di quell’«etica della responsabilità» di cui parlava Weber (e che lo stesso Piccolo rispolvera); così come sacrosanto, sulla stessa falsariga, il rilievo circa lo sterile «esercizio retorico dell’opposizione», vissuta perlopiù come (assolutoria) dichiarazione di estraneità.
Tuttavia il romanzo, in gran parte noioso, ingessato e, a conti fatti, poco originale, lo si può leggere solo come una chiara occasione mancata. Mi spiego: lo sfogliare il carciofo della memoria (assunto su cui si regge il senso del racconto) avrebbe dovuto celebrare la vittoria delle ragioni della vita sulla politica, sul mito della purezza e di una blasonata egemonia culturale (tara genetica della sinistra italiana). E invece è proprio su questo versante che il romanzo di Francesco Piccolo si arena in maniera clamorosa e direi quasi disarmante, mostrando la sua vera natura di libro del tutto irrisolto e che giunge al lettore fuori tempo massimo; simile a un film di Nanni Moretti sull’argomento che approdasse (solo oggi) nelle sale.