Al Teatro Astra
Divorzio all’italiana
Domani torna in scena a Torino (e poi in tournée) uno spettacolo da non perdere: Divorzio di Vittorio Alfieri con i ragazzi diretti da Beppe Navello. Un'invettiva amara sull'orrore secolare dei nostri "costumi"
Dire che una nazione, per superare i propri momenti difficili e puntare a un futuro migliore, deve guardare al proprio passato, spesso sembra una banalità, un puro esercizio di retorica vuota, se non inutile. Ma che non sia una formuletta banale, lo dimostra uno spettacolo che è appena tornato in scena a Torino, al Teatro Astra; uno spettacolo che i direttori dei teatri italiani dovrebbero fare a gara per farlo vedere al loro pubblico. Per la semplice ragione che Il divorzio, l’ultima commedia di Vittorio Alfieri messa in scena da Beppe Navello con i ragazzi della Fondazione Teatro Piemonte Europa, è un inno alla vitalità del teatro. Vediamo perché. Lo spettacolo io l’ho visto al suo debutto, un anno fa, ma ne conservo una memoria scintillante!
Nell’ultimo scorcio della sua vita, sul volgere del 1800, il grande poeta dell’Italia ferita decise di scrivere commedie come in un impeto di pessimismo: lo spirito “italiano” era ferito, a morte. Il divorzio di queste commedie è l’ultima, la più amara, quella in cui la metafora dell’Italia svenduta all’immoralità è più chiara. Vi si racconta di due famiglie che cercano di combinare un matrimonio di convenienza legando una coppia formata da un ragazzo sciocco e una ragazza scaltra. Ed è scaltra a tal punto, la ragazza, che riuscirà a mandare a monte lo sposalizio non per puntare all’amore o alla libertà, ma per sposare un vecchio decrepito, danaroso e morituro; uno da sfruttare a proprio piacimento ancora meglio del giovane stupido.
Il padre di lei, preoccupato solo di non spendere in dote e cerimonia, s’adatterà all’affare. Mentre la madre di lei, dopo aver condotto in porto la trattativa con il vecchio “marito”, finirà a propria volta fregata dalla figlia che le ruberà l’amante e i favoriti (i quali, senza mezzi termini, interrogati, spiegheranno che a parità di guadagno, è da preferire la carne fresca…). Insomma, un orrore morale – visto con gli occhi di Alfieri – che oggi ci pare non solo contiguo al nostro vivere accartocciato sul deserto etico nel quale vaghiamo ciechi, ma addirittura familiare: siamo ciò che siamo sempre stati. Se non fosse che la storia si chiude con un’invettiva finale di rara efficacia: “O fetor de’ costumi Italicheschi,/ Che giustamente fanci esser l’obbrobrio/ Di Europa tutta”.
Beppe Navello a questo terribile materiale (terribile dal punto di vista della foto che fa di noialtri) non aggiunge alcunché. Salvo metterlo in bocca perfettamente ai suoi attori, i quali dell’endecasillabo non scimmiottano la cantilena ma ne incarnano il magnifico ritmo. Al punto che lo spettacolo – un’ora e mezza senza intervallo – vola prepotente fino alla fine quando la festa di matrimonio di questi fetenti italiani comuni si consuma in una adeguata mascherata di teste di maiale: un animale al quale deve molto il nostro recente immaginario collettivo. Ma il merito di Navello non è solo in questo alludere costantemente sia pure senza mai calcare la mano, bensì nell’aver affidato il verso antico e sonante di Alfieri a una compagnia di dodici ragazzi di meno di trent’anni ciascuno; ognuno appassionato e vitalissimo; ognuno bravo nel dare un senso al proprio personaggio e all’operazione. I nomi vanno ricordati tutti: Stefano Moretti (il padre tirchio), Marcella Favilla (perfetta madre ignominiosa), Daria-Pascal Attolini (la giovane che architetta la propria fortuna matrimoniale), Fabrizio Martorelli (il sordido precettore della ragazza), Riccardo De Leo, Alessandro Meringolo e Riccardo Ripani (tre cicisbei della madre e della figlia), Fabio Bisogni e Roberto Carruba (avvocato e medico di casa), poi Diego Casalis (padre del ragazzo sciocco), Camillo Rossi Barattini (il figlio sciocco medesimo) e infine Alberto Onofrietti (il vecchio porco disposto a spendere un po’ dei suoi beni pur di mettere le mani sulla minorenne…).
Si esce da questo spettacolo amareggiati per ciò che siamo e siamo sempre stati ma con la palese convinzione che qualcosa c’è, un barlume in fondo al pozzo nel quale specchiare la parte migliore di noi stessi. Abbiamo quel che meritiamo, è vero, ma abbiamo avuto anche Vittorio Alfieri, potrebbero pur sempre arrivarne degli altri.