Berlusconi e Renzi in scena
Il silenzio dei leader
“Discorso grigio” di Fanny & Alexander è un apologo sul potere e sulla sua incapacità di parlare, di rapportarsi al presente. Così i ”capi” si decompongono lentamente, come il teatro, che non ha più un senso, ormai...
Il Politico tenta di parlare. Prova a fare il suo discorso pubblico. Ricomincia più volte: «Care cittadine e cari cittadini…». Allena i muscoli facciali e la corde vocali. Cura look e prossemica scenica. Sembra rivolgersi a una platea estesa. Sembra in procinto di dire cose grandi, epocali. Sembra voler sfoderare le migliori armi della retorica. Sembra poter essere l’uomo giusto, quello degno di fiducia e consenso. Ma no: il Politico vacilla, ripete frasi e gesti senza senso, decade da ogni ruolo, da ogni presenza, inciampa nelle parole, mescola voci non sue. In definitiva: perde il soggetto del dire. Diventa un frenetico frullatore di discorsi vacui. Una macchina tritatutto che via via si trasforma in fantoccio, maschera afasica, buffone mediatico, marionetta spaesata nella terra desolata dell’antiretorica.
Guardo Discorso grigio di Fanny & Alexander comodamente seduta in una poltrona del Valle Occupato e, mentre ammiro l’estrema bravura di Marco Cavalcoli, penso che raramente come in questo caso il mondo “fittizio” della scena e quello reale della Storia, della cronaca, trovino assonanze e coincidenze così forti, così cocenti, così tragiche: la “barbarie” del linguaggio politico cui assistiamo quotidianamente ormai da tempo è, infatti, sotto gli occhi di tutti e tutti siamo chiamati a una riflessione. E allora, per prima cosa, rifletto sulla forza di un lavoro teatrale raffinato e accuratissimo – Chiara Lagani autrice della drammaturgia e Luigi De Angelis regista – con il quale il gruppo ravennate non solo prosegue quella linea di sperimentazione sulla parola e sull’eterodirezione che l’ha già condotto ai felici esiti de Il Mago di Oz, Him e West, ma soprattutto cambia nettamente direzione rispetto al percorso artistico dei decenni scorsi: rinuncia cioè all’astratto, al visivo, al metafisico, per spingersi nel presente, per richiamarci all’urgenza dell’indignazione, alla necessità di una presa di coscienza. Preannunciando, tra l’altro, altre cinque declinazioni e altri cinque allestimenti: un discorso giallo dedicato alla pedagogia (in scena la stessa Lagani), un discorso celeste imbastito sulla religione (Lorenzo Gleijeses), un discorso rosa di stampo sindacale (Francesca Mazza, già Premio Ubu per West), un discorso viola relativo all’ambito giuridico (Fabrizio Gifuni) e un discorso rosso costruito sul linguaggio militare (Sonia Bergamasco).
Questa prima tappa del progetto è un trionfo di intelligenza. Siamo lontani anni luce dalla spicciola denuncia dei fatti; piuttosto, la pièce si muove lungo traiettorie stilistiche capaci di sublimare la Storia in metafora, di irradiare la tribuna teatrale in uno spazio performativo chiaramente metateatrale. Nella penombra vuota del palcoscenico entra Lui, il Presidente: grandi cuffie nere sulle orecchie (chi gli suggerisce? chi parla al posto suo?), abito in perfetto stile berlusconiano, smorfie da attore vanesio, lo Statista si prepara al grande momento. Sentiamo brandelli di discorsi realmente pronunciati; riconosciamo la voce di, tra gli altri, Grillo, Renzi, Bertinotti, Monti, Bersani, Berlusconi.
Ma in realtà assistiamo ad un disfacimento. Uno smontaggio fisico e vocale della macchina attoriale che, fatto di tremori, calci, balzi, ripetizioni, gesti parossistici, allude all’impossibilità del discorso stesso, alla negazione di ogni affermazione possibile. Vengono in mente film quali Il grande dittatore, Viva la libertà, Il discorso del Re, e poi un libro fondamentale e illuminante come Eroi ed oratori di Marc Fumaroli. Vengono in mente quasi per contrappunto, per contrasto, poiché essi rappresentano, ognuno in modo diverso, un “pieno” che qui, viceversa, si capovolge in vuoto: sotto i nostri occhi si celebra il funerale dell’arte oratoria. E ciò che ne consegue non può che essere maceria.
La partitura espressiva dell’interprete (un Cavalcoli davvero magistrale) porta incisi in sé i segni di una drammaturgia finemente documentata che nella seconda parte del monologo incrocia altri brandelli di discorsi più lontani nel tempo: Kennedy, Martin Luther King, Hitler, Mussolini, Craxi. Ad un certo punto le mani diventano abnormi, il prontuario di gesti ricapitola il meglio – o il peggio – di vezzi autentici, l’attore indossa una vistosa maschera che suggerisce un incrocio tra le fattezze del Cavaliere e quelle sue, in un’emblematica sovrapposizione di politica e teatro, realtà e finzione.
Ed è proprio nel momento del silenzio successivo all’abbandono di quella grande testa posticcia che la comunicazione empatica con il pubblico disvela tutto il senso di questo importante spettacolo: il Presidente tace e guarda – appunto – nel vuoto. L’afasia ha inghiottito il farneticare. Non resta che il silenzio. Il nulla. Lo smarrimento. Suo e nostro.