Risfogliando “L'Approdo letterario”
Antiborghese Buñuel
Sulla rivista realizzata da Carlo Betocchi e Leone Piccioni, l'autrice di “Artemisia” firmava una rubrica di critica cinematografica. Ecco le sue impressioni su “L'angelo sterminatore” uscito in Italia nei circuiti d'essai nel 1968...
Si direbbe che l’anno della contestazione globale non abbia portato fortuna al buon cinema, sperimentale o no: i fatti, non so se di ordine puramente commerciale, dimostrano che mai le platee sono state peggio servite, quasi registi produttori e soprattutto censori considerassero il pubblico come un immenso pollaio da allevare con becchime surrogato a getto continuo, sotto il comando condizionante della luce artificiale. Dall’inizio dell’autunno, infatti, i fìlm concessi alle sale di proiezione non si distinguono l’uno dall’altro, tutti accomunati da una scaltra confezione che li rende commestibili dalle masse ancora alienate al mito, del resto periclitante, dello svago serale. Così si evitano le grane di una censura, peraltro stranamente indulgente agli ammicchi del sesso e alla risata grassa; e, bene o male, i più scuoranti spettacoli si avvicendano lentamente sugli schermi, conditi di piccole dosi di pornografia, violenza e trovatine buffonesche. Chi non si contenta apra il televisore che ammette le pantofole e un sonno innocente.
Naturale che in una simile situazione, l’annuncio dell’opera di un maestro anticonformista susciti particolare attesa e fiducia. Spesso all’annuncio seguono mesi di silenzio e la gente pensa che, chissà, anche questa volta gli scrupoli di uno zelante funzionario abbiano bloccato il lavoro. Per fare un esempio: l’indugio è stato lunghissimo per L’angelo sterminatore di Buñuel, un film tutt’altro che recente giacché rimonta al 1962. Comunque, eccolo presentato nei cinema d’essai, quasi ad avvertire chi non ama le sorprese e i turbamenti delle speculazioni intellettuali troppo spinte.
Precauzion inutili: se al titolo, così biblicamente solenne, qualcuno ha potuto legare il ricordo del troppo breve e folgorante Simeone nel deserto – una delle massime punte del cinema buñueliano – la sua delusione è stata rapida e amara. Non era dunque il caso di riesumare un vecchio film al cui confronto anche il brillante e freddo esercizio freudiano di Belle de jour è di una qualche soddisfazione.
Un attacco alla borghesia, lo hanno definito i rubricanti dei quotidiani: giudizio troppo facile, che lascia il tempo che trova, quando non infastidisce. Simili attacchi appartengono ormai a un’anziana routine: né occorre scomodare il remoto esempio di La dolce vita per rammentare che già nel ’60 Fellini aveva aggredito e liquidato attraverso il mito della café society, quello della società del benessere, alias della borghesia irresponsabile. Non si dissacra quel che è già tautologicamente dissacrato. Senza insinuare una dipendenza dell’Angelo da quel film fin troppo divulgato, è lecito osservare che oggi tanta profusione di bellurie fotografiche annoia e richiama una fattura a metà strada fra il prodotto hollywoodiano e le pagine patinate di Harper’s Bazar. Quanto all’obiezione prevedibile di una lettura delle immagini in chiave surrealistica, essa non regge perché l’allusione surreale gioca qui marginalmente, quasi come accessorio e sovrastruttura, mentre non investe il fatto fondamentale (la misteriosa forza immobilizzante) che rimane un dato letterario, non risolto in termini e sintassi figurativi.
Ma poiché chi rende conto di un film deve riassumerne il contenuto e le vicende, questa è la storia: in una città sudamericana, dominata da una élite corrotta e balorda, due ricchissimi coniugi invitano un gruppo di amici e di belle donne a una cena dopo teatro. Inesplicabilmente, poco prima del convito, i domestici della casa si licenziano senza curarsi di giustificare la loro fuga al maggiordomo irritato e sgomento. Servita malestrosamente la cena, i due ultimi camerieri si buttano il cappotto sulle spalle e scappano anch’essi, lasciando gli ospiti alle loro consuete dissipazioni mondane e ai loro intrighi erotici: questa café society conta tra gli altri un medico scettico, un direttore d’orchestra alla moda, una pianista nevrotica che si esibisce in un brano di musica classica. La notte scorre senza che gli invitati si decidano a congedarsi, finché sulle prime ore del mattino una strana inerzia cala su di loro inducendoli a stendersi dove si trovano, chi su poltrone e divani, chi sul pavimento. Al risveglio, bevuto l’ultimo caffè, addentato l’ultimo sandwich, qualcuno accenna ad andarsene ma non ci riesce, bloccato da una impossibilità astratta: decreto dall’alto o esaurimento della facoltà di volere. Il fenomeno è collettivo e insuperabile, il decreto non ha forma né voce. Da questo momento una torbida rassegnazione stagna sulla sala che prende l’aspetto di un accampamento di sequestrati. Durante la notte un ospite è morto d’infarto e per liberarsene non c’è altro mezzo che nasconderlo in un ripostiglio, la convivenza diventa insopportabile. Scoppiano accessi isterici, si scatenano istinti bestiali. Una parete è demolita furiosamente alla ricerca delle condutture dell’acqua che viene contesa selvaggiamente, le donne sono aggredite, insultate, il fetore del morto ammorba l’aria, due amanti si uccidono dopo l’ultimo amplesso. Infine un simbolico gregge di pecore penetra nella casa e gli eleganti viveurs si trasformano in un’orda primitiva che sgozza arrostisce e divora. Intanto la città assiste passiva al sortilegio, neppure parenti, amici, poliziotti riescono e varcare il cancello della villa, tutti accettano la situazione come inevitabile, nessuno se ne chiede la ragione. All’improvviso, dopo un tempo senza misura, una luce trapela da una finestra e i luridi prigionieri escono ad uno ad uno: l’incanto è rotto per merito di una delle ospiti che ha suggerito di richiamare il momento in cui esso ha avuto inizio, quando la pianista suonava, inascoltata.
Ma il castigo è solo sospeso, l’angelo non è placato, l’ipocrisia di un rito religioso suggella l’ultima condanna. Compunti e decorativi i maledetti assistono nella cattedrale a un Te deum celebrato da ignobili preti. Non si esce da quella chiesa, non si uscirà in eterno. Il simbolico gregge ricompare mentre l’organo tuona minacciosamente e di fuori le piazze sono invase dalle folle terrorizzate: la collera divina si è valsa del braccio della rivoluzione sociale.
Clima, dunque, a sfondo apocalittico dove potrebbero benissimo situarsi le terribilità icastiche del cattolicesimo spagnolo e innestarsi le maledizioni del fiammingo Ghelderode. Richiami più sottintesi che realizzati: lo schermo non ne riceve che un debole riflesso, sotto l’impresa letteraria, data per scontata, del Libro di Samuele. Scansando il rischio d’inventare e affrontare figurativamente una esplicita presenza demoniaca, Buñuel ha preferito puntare sull’ambiguo, sull’enigmatico, disseminando invece il tessuto narrativo di fioriture surreali e oniriche di ovvio consumo. Quella manina amputata che per effetto della droga una delle dame vede correre sul pavimento come un candido inafferrabile scarafaggio, è un lugubre scherzetto al confronto dell’apparizione luciferina che assaliva sotto il sole del deserto lo stilita Simeone; e i pannelli dorati che si schiudono cigolando sul buio di ignoti recessi nella casa stregata non si distaccano dal comune repertorio dei film dell’orrore. Non è degno di Buñuel evocare Satana esorcizzando due zampe di gallo. In una parola L’angelo sterminatore manca di autorità, le trovate raccapriccianti si afflosciano, le sequenze stagnano in ripetizioni monotone. Si direbbe che il furore antiborghese del regista lo accechi, che una rabbia troppo compressa lo ipnotizzi su immagini tanto odiate da impedirgli il gesto di distruzione liberatrice.
(da L’Approdo letterario, n° 44, ottobre-dicembre 1968)