Apre la stagione del teatro palermitano
Strauss alla Vucciria
Una splendida opera "Feuersnot” per la bella regia di Emma Dante al Massimo di Palermo. La sensualità e l'ironia del compositore bavarese sbarcano nel cuore della Sicilia
Con un doveroso omaggio al genio musicale e compositivo di Richard Strauss (in coincidenza con il 150° anniversario della nascita del bavarese) si è inaugurata la stagione operistica del teatro Massimo di Palermo, peraltro con un’opera tra le meno note e rappresentate: si tratta della Feuersnot, il Singgedicht (poema cantato) in un atto, andato in scena, per la prima volta, alla Hofoper di Dresda nel 1901 per il libretto del poeta satirico e drammaturgo Ernst von Wolzogen, adattamento di una leggenda fiamminga («Il fuoco spento di Audenaerde»).
L’azione si svolge in una Monaco del XII secolo, leggendaria e popolare, durante la festa di San Giovanni, nel giorno del solstizio d’estate. Nel clima gioioso di danze e canti, mentre i bambini scorrazzano per le vie a raccogliere la legna per i tradizionali fuochi, si consuma l’incontro-scontro d’amore tra la bella Diemut (figlia del borgomastro della città) e il misterioso Kunrad (un pazzo? un mago?). Sarà lo scandalo dell’impetuoso bacio a tradimento di quest’ultimo a mettere in moto la vendetta della giovane, che orchestrerà una beffa dal sapore boccaccesco, lasciandolo a mezz’aria, penzoloni, dentro un cesto, sotto il suo balcone («Compagne, amiche / guardate qui, che raro uccello ho preso, / e alla finestra la bella preda ho appeso!»), oggetto dello scherno dei passanti. Alla quale Kunrad risponderà facendo piombare di colpo la città nel buio («Voi avete disprezzato / la legge dell’amore – / avvolti ora restate / in buio senza fuochi»), tremendo prodigio che potrà essere spezzato solo dall’amore (corrisposto) della vergine («dalla donna fluisce ogni calore, / tutta la luce erompe dall’amore -»).
Feuersnot fu l’unica delle opere composte per Dresda da Strauss a non entrare in repertorio: forse perché, come scrisse egli stesso, «l’originalità di F. sta nel tono consapevole di ridicolo, nell’ironia, nella protesta contro il comune libretto». Unica vera opera “comica” del compositore, nell’alchimia sonora, tutto s’infiamma, crepita, si dissolve, in un cromatismo espressionista e onomatopeico; incastro perfetto tra partitura e testo poetico, per cui ogni attimo, sulla scena, trova preannuncio o sottolineatura nella pagina orchestrale. Quell’ironia che segna un distanziamento da Wagner, cui aveva peraltro pagato il giusto tributo d’ammirazione anni prima con il Guntram, la sua prima opera, infarcita di rimandi e moduli, dal Thannhäuser al Parsifal. Anche qui non avaro di riferimenti, a cominciare dall’ambientazione a Monaco durante la festa del solstizio d’estate che riporta immediatamente ai Meistersinger; non poche, ancora, le scoperte citazioni di lacerti tematici del Ring o il ricalco dei versi del duetto d’amore del Tristan und Isolde.
A riuscire diverso è l’approccio disinvolto e smaccatamente beffardo, secondo un procedere che potremmo definire postmoderno ante litteram: gli ammiccamenti salaci e scabrosi, la scelta di mescidare il dialetto bavarese al tedesco, nel libretto; il continuo riproporsi e intrecciarsi, nella partitura, di Leitmotive, riprese en passant di moduli wagneriani, accanto alle canzonette popolari, perlopiù affidate al Kinderchor (coro di voci bianche), come il refrain «Maja, maja, mja mö, lober, lober luja» che si trascina per tutta l’opera. E c’è soprattutto il piglio risentito e satirico di uno Strauss che addirittura s’identifica con lo stesso Kunrad, nel monologo in cui il mago palesa la sua vera identità (nel libretto non a caso fanno capolino i nomi di Wagner, di Wolzogen e dello stesso Strauss), volto a colpire il perbenismo borghese dei suoi concittadini, rispedendo al mittente alcune critiche che erano piovute su di lui e sul suo maestro («preferiste serbare il passo pigro, / perché ai pretuzzi e alle vecchie beghine / mai non dovesse venir meno il fiato»).
Oltre alla curiosità per la riproposizione di un titolo raro (per la prima volta presentato in Italia nell’originale libretto in tedesco), l’attesa era tutta per il debutto a Palermo della scrittrice e regista Emma Dante, al suo terzo cimento con il teatro d’opera, dopo l’esordio alla Scala nel 2010 con una Carmen che ci aveva entusiasmato e convinto solo a tratti. Regia che probabilmente non sarebbe dispiaciuta allo stesso Strauss, avvezzo a “sporcarsi le mani” con il teatro. Nonostante una prevedibile trasposizione della vicenda in uno scenario da basso palermitano (nella bella scenografia di Carmine Maringola), la Dante ci regala una macchina scenica controllatissima e metronomica, un perfetto connubio tra musica e azione, nel profondo rispetto del testo e dell’intenzione musicale, sfruttando al meglio un cast ottimo ed equilibrato: scenicamente gigantesco anche se un po’ meno nella voce, ma sempre gradevole, il Kunrad del baritono Dietrich Henschel, energica ed eterea insieme la Diemut di Nìcola Bell Carbone, non meno delizioso anche il trio (da commedia) delle zittelle-amiche Elsbeth, Wigelis e Margret (Christine Knorren, Chiara Fracasso e Anna Maria Sarra); un encomio speciale va poi tributato all’invidiabile prova del coro di voci bianche del Massimo (diretto da Salvatore Punturo), a testimoniare una tradizione quanto mai viva e prolifica in città. Il tutto affidato alla direzione smagliante e priva di sbavature di uno specialista straussiano come Gabriele Ferro. Ma torniamo alla regia.
Accanto alla trovata meta-teatrale di rimarcare la coloritura autobiografica con l’ingresso in scena, ancor prima dell’orchestra, di Kunrad-Strauss che, seduto sul bordo della buca, legge e dirige mentalmente la musica che di lì a poco verrà eseguita, senza dubbio il punto di forza dell’impianto registico rimane l’irrompere (da subito) sulla scena d’una compagnia di ben trenta mimi-ballerini-attori, biglietto da visita con il quale Emma Dante si presenta al pubblico palermitano, quasi a voler suggerire la grammatica che troverà sostanza, a livello di movimenti di scena, nel corso della recita, con almeno due straordinari momenti di autentica poesia teatrale, come il walzerone centrale (uno dei motivi ricorrenti) ballato secondo una mimica iterativa sostenuta da tic e accelerazioni e l’avvampare del grande fuoco finale, con il trionfo d’amore, evocato sulla scena dal turbinare, in geometrica disposizione, di sgargianti teli giallo-arancio.
A dimostrarsi coerente in toto è soprattutto l’idea registica di fondo portata avanti da Emma Dante, che rilegge la Feuersnot come il trionfo di un eros che viene a coincidere con il sacro fuoco della musica (si pensi alla carnalità e al sensualismo straussiano): trionfo sul caos e su una (apparente) invincibile grettezza (suggeriti dallo studiato ciarlare in coppie, degli orchestrali, prima che inizi la musica, a fare da contrappunto alla baraonda del dì di festa che impazza sul palco, o ancora ai ciocchi distribuiti ai bambini per i fuochi che hanno forma di strumenti musicali o sono spartiti, da bruciare). Penuria che può essere, per un puro sortilegio, ribaltata come aveva intenzione di suggerire l’ambiguo titolo del libretto di Wolzogen, dove il composto nominale formato da Feuer e Die Not può voler significare “pericolo” o “mancanza” o “bisogno, urgenza” di fuoco. E Kunrad-Strauss che rimane librato a mezz’aria nel secchio (qui sostituito da una sedia) è l’icona stessa di un desiderio represso e pronto a esplodere che lo apparenta per certi versi a quel cavaliere del secchio protagonista del suggestivo e misterioso racconto di Kafka Der Kübelreiter (1917), che vola in sella al secchio vuoto, ondeggiante e leggero, segno di privazione e desiderio insieme. Così come la borgata immaginata da Emma Dante per questo scintillante Feuersnot inaugurale non può non riportarci alla contrada senza nome di Lunaria (1985) la favola teatrale di Vincenzo Consolo, con il risorgere, vittorioso, nel luogo più impensato, della poesia, della musica.