A proposito de «I circuiti celesti»
Sic e i salmoni
Emanuele Tonon, narratore controcorrente, ha scritto un libro atipico e kafkiano su Marco Simoncelli, il motociclista morto a Sepang. Una storia epica che mescola miti e sentimenti quotidiani
Confesso la mia predilezione per quelli che amo definire gli scrittori-salmone, capaci di andare controcorrente, resistenti alle mode, ai diktat di editori, editor e agenti; alla mercificazione del fatto letterario. Quell’enclave di autori che rivestono di un’aura di fulgida “inattualità” il loro mestiere. Inattuali, perché capaci d’inseguire un’idea diversa di letteratura, ciascuno portando “dentro” di essa la propria esperienza, senza guastarne o svenderne il peso, ma reiventando, sulla pagina, di quell’esperienza, il senso profondo.
A questo punto qualche nome potrebbe giovare: penso a una scrittura ibrida come Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi, riuscito amalgama (in vista di un’alternativa pista conoscitiva) a mezzo tra autobiografia e critica letteraria, adagiato sul ventre morbido del romanzo; o al Magrelli di Geologia di un padre che, principiando dall’archeologia della biografia, eleva ad archetipo la vicenda privata del padre che diventa antenato di ciascuno, agendo per il lettore come percorso di auto-agnizione; oppure il leopardiano La lucina di Moresco, gemmato da una paginetta degli Increati (ultimo atto, ancora inedito, della sua ciclopica trilogia), resoconto del viaggio ultimativo sulla soglia tra vita e morte, essere e mistero del non-essere; e, per non trascurare gli esordienti, come non citare la salmodia circolare che Alessandro Cinquegrani realizza con Cacciatori di frodo, una tragedia familiare che si estende ad universale apologo sulla condizione dell’Uomo.
A questa schiera, anche per la singolare vicenda umana e intellettuale, appartiene Emanuele Tonon, che, dopo il dittico costituito da Il nemico (2009) e La luce prima (2011), tesi a comporre una singolare “trinità cattolica” (la morte del padre, il darsi del figlio, l’involarsi, rimanendo presente, dello spirito con il racconto della perdita dell’adorata madre), si ripresenta con un libro solo in apparenza di minore impatto rispetto ai precedenti. Ché I circuiti celesti (66th and 2nd, 2013) ripercorre sì, nel concentrato spazio di poco più di cento pagine, la breve vita dell’«angelo centauro» Marco Simoncelli, tuttavia agendo la storia del Sic come un “riconoscersi”, occasione di redigere una intrecciata e speciale doppia biografia; concependo un libro in piena coerenza con la sua ricerca letteraria che, come m’è capitato altrove già di scrivere, ammette ora una sola lingua («la lingua degli angeli»), una sola voce, una sola via alla letteratura.
Nel rievocare fino al drammatico epilogo la geografia e biologia del campione, non può, infatti, prescindere dal riandare alla propria storia, istituendo un luminoso cortocircuito tra la vita dello scrittore e quella del predestinato eroe della velocità. Alla ricostruzione dell’infanzia, della passione per le due ruote, degli esordi e della carriera spezzata di Simoncelli, si alternano scampoli di avvelenato e scabro autobiografismo («uno a cui era impedito per condizione sociale di sognare»): il doloroso apprendistato di ragazzo-operaio in fabbrica, la lunga esperienza del noviziato in convento, la vita di adesso. Lumeggia un paesaggio interiore che affratella, pur nelle diversità, chi ancora rimane a chi si è involato anzitempo. Racconta di «un’epica a cui sente di appartenere»: un’epica che Tonon traduce in una mistica. In una sorta di trasfigurazione dell’eroe sportivo, parabola esemplare dell’ultimo che «diventa primo per solo coraggio, per solo talento»; in quel «brodo perfetto» entro cui si rivela il senso pieno di un’esistenza, del mistero d’essa («la vita è la massima invenzione di essere destinati a quell’altra invenzione che è la morte»). Una mistica «radicale» abitata da un desiderio vertiginoso: simile a quello dell’indiano del celebre racconto di Kafka (non a caso citato da Tonon in esergo). E mentre scrive, per empatica sovrapposizione, Tonon non fa altro che mettere su carta la perpetua tensione a somigliare, anch’egli (come il Sic), a «quell’indiano felice nella sua terra, nel suo centro del mondo».
L’indiano di Kafka, dunque, come una carta dei tarocchi, l’emblema figurale di quel desiderio, condiviso, di librarsi in corsa, «obliqui nell’aria», l’effige di un analogo blasone: entrambi hanno attraversato i «circuiti terrestri»; entrambi accomunati da quello «stare nel fervore», di quando la forza del sogno sconfina nella veglia. E c’è un preciso punto d’interferenza, tra i due, vera quadratura del cerchio: l’incidente di Sepang assume il valore di un’epifania (una «ostensione» simbolica); e lo riporta a quando, sedicenne, Tonon viene sbalzato dal suo Benelli per l’inatteso piombare sulla strada di una lepre. Ecco: Simoncelli che ritorna in pista e scivola sull’asfalto somiglia all’improvviso apparire di quella lepre. Nessuna voglia di «estetizzare una tragedia ma sancire la verità» -, dichiara, da subito, con perentoria determinazione, lo scrittore. Ma a quale verità allude? Oltre al vitalistico abitare nello spazio di un vibrante desiderio (come l’indiano di Kafka), la verità contrabbandata da Tonon, la possiamo leggere, qui, nel finale che si impone con la forza di un appuntamento certo, un radioso “arrivederci” («rideremo tanto come solo i salvati sanno ridere»), nel segno della grazia e di una supposta gioia. Chi di noi non ha scambiato, una volta almeno nella vita, una promessa a partire da un simile congedo? Al bivio di una fine che segna, o almeno lascia intuire, come che sia, un incomprensibile inizio?
Producendo nel lettore l’effetto spiazzante di una sinestesia, con I circuiti celesti Tonon ci consegna un libro sulla forza del sogno e del sacrificio, sulla passione, nella vita, sulla predestinazione. E non si può non leggerlo, ancora, come epitome della disposizione dello scrittore, un manifesto di poetica. Dopo il furore acido dell’esordio, con la sua metrica ammirata, che non oserei a definire devozionale, capace di trasferire sulla pagina la gioia necessaria e la vertigine della scrittura, Tonon riesce uno dei pochi autori italiani davvero superstiti al marasma della post-letteratura: la sua eresia (al di là delle forzature promozionali di cui è stato oggetto), l’essenza del suo protestantesimo, sta tutto qui.