Tra mito e femminicidio
Salvate Desdemona
«Shakespeare fu il primo a capire il ruolo di vittima della donna. E cercò di spiegare perché». Nanni Garella parla del suo “Otello” con Massimo Dapporto, Maurizio Donadoni e Angelica Leo
Diversi orrori di cronaca di questi ultimi (ma non solo ultimi) tempi mi spingono a riflettere su un testo di Shakespeare, l’Otello, che non ho mai capito. Non mi sembrava interessante il tema di una gelosia che non aspetta altre certezze che un fazzoletto per scatenare la sua follia, per trasformare un dichiarato amore in odio puro e desiderio di morte dell’oggetto amato. Forse una sottile angoscia tutta femminile me ne allontanava. Di recente ho visto l’Otello diretto da Nanni Garella con Massimo Dapporto e Maurizio Donadoni, che è già alla sua terza tournée, e ho avuto l’occasione per ripensare a questo dramma dell’amore impossibile, dell’amore caìno.
Gli attori sono agiti, dominati dal succedersi degli astri di un cielo che costituisce l’unica scena; l’immagine di sfondo ha l’incandescenza del bianco e dell’azzurro ceruleo delle incisioni di Hiroshige, ma porta con sé anche l’idea di un destino immutabile, già da tempo segnato, come d’altronde nell’arte giapponese.
Nanni Garella è un regista colto e raffinato. Attore a 23 anni con Aldo Trionfo, poi aiuto regista con Virginio Puecher e Massimo Castri; mette in scena testi e autori impegnativi, come Elettra, Ricorda con Rabbia, Masnadieri da Schiller, Agamennone di Alfieri, e ancora Metastasio, Svevo, Pirandello, e Sogno di una notte di mezza estate e A piacer vostro di Shakespeare, e l’elenco potrebbe continuare su questa linea dell’impegno e della fedeltà al testo.
È inevitabile, dopo aver visto il suo “Otello”, che una donna pensi al tema del femminicidio…
Il femminicidio è stato il motivo dominante delle mie scelte di regìa fin dall’inizio. Forse prima di questo mi aveva colpito la lungimiranza di Shakespeare su una questione antropologica di trasformazione della società patriarcale. Aveva intuito, con l’antenna dei grandi poeti, che la posizione della donna, durante il tracollo della società cavalleresca, avrebbe subìto dei cambiamenti, e ovviamente dei contraccolpi dovuti ai colpi di coda del mondo maschile. Nello squarcio di società militaresca che ci dà Otello colpisce l’ottusità e la cupa, cieca violenza con cui due uomini – Otello e Jago che hanno dissertato per due ore sui massimi sistemi della natura umana – si scaglino sulle loro mogli, massacrandole per affermare princìpi da un lato e machiavelliche convenienze dall’altro.
Ma in tutte le tragedie, e dunque anche in quelle shakespeariane, dalla morte dei protagonisti nasce un agnizione, come dopo la morte di Amleto l’asse del mondo sghembato ritrova il proprio assetto, e il giovane Fortebraccio entra in scena alla fine, portatore di speranze di rinascita del marcio regno danese…
Nell’Otello invece alla fine perdono tutti: i nobili e i malvagi. Desdemona, Emilia, Roderigo assassinati, Otello suicida, Iago travolto dai suoi stessi inganni e dalle sue trame scellerate. Tutti fanno scelte sbagliate. Il mondo non ritrova il suo equilibrio, dopo l’atto estremo di Otello e il sacrificio di sua moglie: come dopo un’eclissi di sole e di luna – stralcio simbolico di un’immagine barocca – l’uomo resta sotto un cielo vuoto.
E la donna, non ha altro destino che soccombere? Lei lo ha definito “sacrificio”…
Ciò che commuove alla fine è proprio l’ingenuo, tragico sacrificio di Desdemona, il suo amore adolescenziale, affascinato, violento – sì, anche violento – e la sua dedizione all’uomo che ha scelto per affermare i suoi princìpi. Ricordiamo che Desdemona è una ribelle, che ha rinunciato alla famiglia, alle comodità, a un matrimonio di convenienza, e lo ha fatto solo per amore e per pietà.
Inoltre Otello è nero…
Già, come scrive Victor Hugo a proposito di questa tragedia: «Otello è la notte. Un’immensa figura fatale. La notte è innamorata del giorno. L’africano adora la bianca. È grande, è augusto, è maestoso, ha al suo seguito il coraggio, la battaglia, la fanfara, la bandiera, la fama, la gloria, è Otello; ma è nero. E allora come fa in fretta l’eroe geloso a trasformarsi in mostro! Il nero diventa negro. Con quanta rapidità la notte ha fatto segno alla morte!».
Dunque Otello somiglia ai neri di Conrad, insondabili figure, figli più dell’inconscio del bianco che suoi fratelli. O di Babo, il nero spaventoso che domina e cattura la figura del capitano sulla nave ammutinata nel Benito Cereno di Melville…
Ma qui è la mente di Otello a precipitare in un cupo abisso, in un accesso di follia distruttiva e autodistruttiva, omicida e suicida. E resta solo, in un linguaggio sfasato e incerto, sconnesso, schizoide, una sorta di eloquio spezzato che somiglia al monologo interiore della letteratura moderna, di Joyce, di Beckett…
Dunque, una volta concluse le avanguardie, nel teatro di oggi si parla ancora di linguaggio?
Il grande equivoco dell’avanguardia sta forse proprio nell’essere stata un’avanguardia “tecnica”, tutta interna alla ricerca di nuovi linguaggi, ma poco o niente attenta ai motivi poetici e alla natura intrinseca dei testi da rappresentare. Io mi ritengo ormai abbastanza anziano, tanto da poter dire che se la regìa nel teatro di oggi è in grave crisi, ciò è perché è in crisi tutto il sistema di rappresentazione del mondo nella civiltà occidentale. La regìa è ancella del testo e può e deve reinterpretarlo, può e deve lavorare sull’attualità dei sentimenti e dei motivi poetici presenti in un testo, sulla loro autenticità, ma non può sostituirsi all’autore.