Giuliana Vitali
Viaggio letterario sotto al Vesuvio

Qui brucia Napoli

L'immondizia e la Terra dei Fuochi; i mortaretti e la rivincita, il Monaciello e Maradona, Port'Alba e Pompei. Piccolo itinerario dolente in una città ferita a morte

È il crepuscolo. L’aria è ferma. Fiancheggio con l’auto i campi sterminati della Terra dei Fuochi: Marcianise, Caserta, Caivano, Giugliano. Campagne bianche. Serre. Forse di broccoli verdi, irrinunciabili sulle tavole piene per le festività di fine anno. Si confondono in lontananza ai riflessi opachi dei lampioni dei centri abitati. Un fumo nero e pesante sale piano. È difficile distinguere le linee che lo disegnano. Alle sue pendici, luci sfocate di strade e case. Penso ai racconti di mio nonno sull’eruzione del Vesuvio del 1944. Della pioggia di ceneri che cadeva copiosa sui tetti, affossando le case. Bruciando persone e cose. L’auto corre nell’anarchico traffico napoletano. Lascio alle spalle la collina dei Camaldoli che pare un presepe scosceso e quieto. La fabbrica delle porcellane nei viali alberati del bosco di Capodimonte, racchiuso dalle alte mura di pietra chiara.

Sul corso principale di Chiaiano, posso vedere nelle case dei bassi e antichi palazzi. I bagliori dei maestosi alberi di natale, nei soggiorni dai mobili ottocenteschi, illuminano la via dall’alto, specchiandosi nei colori vivaci dei vestiti stesi sulle ringhiere arrugginite. L’altare della Madonna, all’incrocio con la strada che porta alle cave del paese e alle terre dei contadini, è in festa. Luci intermittenti tracciano il grande crocifisso in ferro. I bidoni dei rifiuti misti sono stati rimpiazzati con quelli della raccolta differenziata. Sembra tutto più pulito. Passo davanti al presidio antidiscarica di “Jatevenne”. La monnezza c’è. È sotto i nostri piedi, nell’aria. Ricordo il 2008 come un lungo anno di battaglie contro lo Stato e la camorra. Il quartiere militarizzato. Le manifestazioni con le mani alzate di tutto il popolo, di fronte agli schieramenti della polizia in tenuta antisommossa. Le manganellate ai vecchi e ai ragazzini. Le intimidazioni. Le marce verso la cava di tufo di Via Cupa del cane, destinata alla discarica che avrebbe poi violentato la terra delle ciliegie.

napoli3Il centro storico è un intrecciarsi di vicoli stretti con edifici antichi che sorgono sulla città vuota di Neapolis.  Un acquedotto, realizzato in epoca augustea che si dirama in cunicoli claustrofobici e cisterne pluviali. Aveva lo scopo di alimentare fontane e abitazioni situate in superficie. Nella seconda guerra mondiale fu anche riparo per la popolazione sotto i bombardamenti. È abitato da uno strano spiritello leggendario. O’ Monaciello, le cui origini risalgono al ‘500. Un giovane incappucciato, basso e con la gobba. Arricchisce o manda in miseria. Si narra fosse l’antico gestore dei pozzi d’acqua, comunicanti con le case. Il suo essere minuto gli permetteva di attraversare quei passaggi stretti, coperto con un cappuccio per l’alta umidità e divenuto deforme per il faticoso lavoro fisico. Amante delle giovani donne borghesi che omaggiava con oggetti derubati alle ricche dimore. Fortune raccontate orgogliosamente dai mariti. Oppure singolari sparizioni dispettose.

Centro storico. Passeggio lungo Port’alba. La via delle librerie. La storica Guida, che prendeva quattro locali sul marciapiede, è fallita. Sento i commenti malinconici della gente che ci passa davanti. Arrivo al conservatorio di San Pietro a Majella da dove provengono canti di voci bianche e accordi di violino. Lungo la via della Musica, il negozio di strumenti Loveri dove mio padre mi regalò la prima chitarra, una Ibanez acustica blu e nera. Svolto l’angolo e mi ritrovo in Piazza San Domenico Maggiore. La folla nereggia. Un gruppo di artisti di strada suona blues sotto l’alto obelisco. Due chitarre elettriche e una batteria con grandi taniche colorate di plastica, due piatti e manubri di metallo ai lati per dare ai brani un effetto soul. Più avanti, verso Piazzetta Nilo, due bambini giocano con il pallone ai rigori. La porta è l’ingresso serrato di una piccola chiesa. Un’orchestra di musica popolare napoletana suona in ritmo jazz accanto all’altarino azzurro di Maradona che racchiude il suo capello miracoloso.

La partita. Un muro di circa due metri d’altezza separa il viale privato dallo stadio comunale. Oltre il campo, le case popolari, la 167. Oggi c’è la partita Mugnano-Giugliano. D’improvviso i tifosi avversari assaltano il viale. Salgono sulle ruote delle macchine parcheggiate e s’arrampicano sul muro per riuscire a vedere il gioco. Gridano. Cantano cori. Per la loro squadra e contro la polizia. Hanno catene ai fianchi. Bandiere in mano con aste di ferro. Molti, la faccia coperta con sciarpe. Due poliziotti, dall’altra parte del muro, assistono alla scena. Mi affaccio al balcone e chiedo ad alcuni ragazzi perché non sono dentro. Qualcuno mi risponde che lo stadio è inagibile. Altri che non c’è l’ambulanza all’ingresso. Forzano i portoni dei due palazzi per poter salire ai piani più alti e vedere meglio la partita dalle finestre dei pianerottoli. Sfondano la porta di ferro dove c’è la pompa d’irrigazione, per bere. Il signor Giovanni, del secondo piano, grida “O’ sapevò ca’ ce steva qualcùn ca’ conoscèv!” e il ragazzino “Eh… professòr…” voltandosi dall’altra parte con fare guappo. Sirene in lontananza s’avvicinano velocemente. I ragazzi scappano in direzioni diverse. I poliziotti con i manganelli impugnati tentano di spaventarli. I tifosi escono fuori strillando “Ultras liberi”. Cantano cori per il Giugliano. Pur non vedendoli giocare.

Pompei. Percorro la Circonvallazione Esterna di Napoli per imboccare l’autostrada che porta a Pompei. Lungo i lati discariche a cielo aperto tra baracche e roulotte nei campi nomadi. Arrivata alla città vecchia, il parcheggiatore mi domanda se si è sentito il terremoto. Gli rispondo di sì e mi confessa che la loro paura è un’altra. È Pasquale. Il Vesuvio. Pompei è una città spettrale. Consumata dai crolli, affonda nelle perenni transenne arancioni. Corpi pietrificati di uomini e animali dormono sotto la pioggia tra cassette di plastica della frutta. Scope e sedie appoggiate su mosaici e sulle antiche decorazioni deturpate da scritte. Molti monumenti sono chiusi al pubblico. Nessuna targa che indichi i nomi dei luoghi. Un sentiero fangoso mi conduce alla Villa Dei Misteri, rustica abitazione destinata alla produzione agricola, del II secolo a.c. Nel suo interno pitture d’ispirazione greca raffigurano l’iniziazione di una sposa ai misteri dionisiaci. Maschere terrificanti. Sacrifici lustrali. Liberazione dei sensi. Divinità dalle ali nere. Sullo sfondo d’ocra rossa.

napoli2Il 32 dicembre. Hanno cominciato a sparare tric trac e petardi dalle cinque del pomeriggio. I fuochi d’artificio nella sera di Capodanno sono una tradizione sacra e superstiziosa. In attesa dell’esplosione della nuova bomba. Ogni anno sempre più grande e fragorosa. Un odore di pesce fritto e polveri di botti appesantisce l’aria. Mi torna alla mente un personaggio dell’amara commedia di Eduardo De Filippo Le voci di dentro. Lo zi’ Nicola detto O’ Sparavierzi, interpretato da Ugo D’Alessio. Abita in un mezzanino al centro della scena, dominandola. E’ un vecchio che dolorosamente ha deciso di non parlare più perché nessuno lo vuole ascoltare. Deluso dalla mostruosità dell’animo umano, dalla morte della parola che ha portato all’incomunicabilità, si rifugia nella misantropia. Talvolta s’affaccia dall’alto sputando su quelli che si trovano in basso. Si esprime attraverso lo scoppio di mortaretti e castagnole. E’ il linguaggio speciale anche di Napoli. Fuochi che diventano voci visive. Libere, come nelle notti di Van Gogh.

Il momento del brindisi e degli auguri mi ha sempre fatto sentire a disagio. Anche con la mia famiglia. Ma allo scoccare della Mezzanotte, m’appare davanti una pioggia pittoresca di fuochi d’artificio. Con gli spettacoli pirotecnici di Qualiano, Calvizzano, Giugliano, Villaricca e Mugnano di Napoli, il paese dei fuochisti. Razzi impazziti e macchie di polvere d’oro. Fischi dirigono questa musica frizzante e malinconica. Bengala gialli, rossi, verdi dipingono i balconi delle case popolari da dove, in un cortile, s’ innalza un fumo purpureo che raggiunge la nebbia in alto. Esplode fortissima la bomba finanziaria, da qualche parte. Un punto rosso taglia l’atmosfera nera e gonfia, adagio. Si sdoppia per poi eclissarsi. Torna il silenzio e una città ammarata nei fumi.

Sulla strada di ritorno verso Roma, penso ad una frase che ricorre ne Lo straniero di Albert Camus: «È vero che a tutte le idee ci si fa l’abitudine». Tranne che a una: quella della morte dell’anima razionale degli uomini. Di una città. Di un Paese. A questo, di certo, non mi abituerò mai.

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