Visioni contromano
Di padre in figlio
Non perdetevi "Nebraska" di Alexander Payne: il passaggio di testimone tra due generazioni raccontato con stile e ironia. Anche quando è doloroso. E con una Jane Squibb strepitosa
Se avete un paio d’ore segnatevi sull’agenda quest’impegno: andare al cinema, a vedere Nebraska. È un consiglio spassionato, anzi no, è un consiglio appassionato. Perché se vi piace il cinema, se vi piacciono le storie di perdenti venate di ironia, se vi piace il cinema dei grandi spazi, se vi piace il bianco e nero in cinemascope, l’ultima pellicola di Alexander Payne è quello che fa per voi. Nebraska è la storia di un padre e di un figlio, perdenti entrambi ma entrambi, infine, vincitori. Nell’unica maniera in cui un perdente può vincere, capitalizzando la sconfitta, irradiando d’ombra le vittorie altrui. Dimostrando, come dice Woodie a Buzz in Toy Story, che “cadere con stile” in fondo è come volare.
Nebraska vi piacerà, specialmente se siete adulti. Perché molti si ricorderanno quel preciso istante in cui, nel rapporto con i propri genitori, si diventa genitori a nostra volta. Capita a tutti, ma non è detto che tutti se ne accorgano alla stessa maniera. Avviene uno scatto, si avverte che qualcosa non è più come prima, che il percorso da figli è arrivato alla conclusione. Si sente che nella persona più cara che abbiamo, madre o padre che sia, è avvenuto un cambiamento. Che un po’ dipende da noi, ma soprattutto dalla persona che abbiamo di fronte. È una ferita, piccola piccola, che magari c’è sempre stata, ma che non abbiamo mai avuto il coraggio di guardare. Che si allarga ogni giorno, squarciando la nostra esistenza e appesantendola di una ulteriore responsabilità. Lucio Battisti anzi, Mogol, avrebbe detto che «si muore un po’ per poter vivere».
Nel film naturalmente ci sono tante altre cose: la storia di una improbabile vincita milionaria e una madre invadente e sarcastica, con una straordinaria June Squibb non a caso candidata all’Oscar come Migliore attrice non protagonista. Poi c’è l’amico del tempo che fu, interpretato da Stacy Keach, viscido e quando serve cattivo ma non solo. Perché nella storia non c’è un unico personaggio bidimensionale. E qui si avverte tutta la bravura di Payne regista di attori, si avverte la cura che dedica ad ogni carattere rendendolo ricco di sfaccettature, magari solo di tic, che però si incastrano sempre alla perfezione con la struttura perfetta del racconto. C’è poi, ovvio, il Nebraska, fotografato magistralmente da Phedon Papamichael. Con le sue abitazioni che sembrano disabitate anche se non lo sono, con i suoi spazi immensi costellati da mucche nere, quasi sempre immobili. C’è anche da dire che il regista conosce bene questi posti, perché c’è nato. E forse, a giudicare dalla scritta che si intravede sulla lapide del cimitero dove avviene una delle scene più dissacranti del film, ha anche intenzione di morirci.
Nel finale, come in ogni grande film, c’è una scena che rappresenta l’intero film, come avveniva nei capolavori di John Ford. Padre e figlio, Bruce Dern (anch’egli candidato) e Will Forte (memorabile protagonista di MacGruber e colonna del SNL), si scambiano il posto all’interno del furgone appena acquistato con i soldi della (mancata) vincita. Il padre, dopo aver guidato per un’ultima volta, si siede accanto al figlio, che saprà condurlo per quel poco che gli rimane ancora da vivere. La vita in fondo è darsi il cambio, salire e scendere dalle spalle di chi ci sta accanto. Magari bevendo insieme una birra che, in fondo, non è nemmeno bere.