Rivisitazione del grande poeta russo
Omaggio a Mandel’štam
In “I lupi e il rumore del tempo” Paolo Ruffilli ripropone 41 poesie che spaziano dalle prime prove all'ultimo periodo, prima della discesa agli inferi per volontà di Stalin, nel gulag siberiano di Vtoraja Rečka dove l'esponente dell'acmeismo morì nel 1939
La poesia dei grandi poeti attiva una sorta di “parentela elettiva” negli scrittori che sanno aprire le proprie disposizioni artistiche e, come un riconoscimento di appartenenza, l’attenzione diviene quasi un atto d’amore. Solo così si può comprendere l’interesse quasi ossessivo che alcuni poeti hanno riservato a grandi scrittori del passato. In tal modo ho interpretato la dedizione assoluta che Paolo Ruffilli riserva a Osip Ėmil’evič Mandel’štam, di cui ha curato una bella antologia (I lupi e il rumore del tempo, LCE edizioni, 96 pagine, 12 euro). Ruffilli racconta in modo puntuale e fascinoso la vita travolgente e terribile dell’esponente di spicco dell’acmeismo, vittima della repressione staliniana, morto nel 1939 nel gulag siberiano di Vtoraja Rečka. Nella sua lunga e preziosa introduzione si rintraccia, oltre alle coordinate poetiche, il coraggio di Mandel’štam, si rivive la sua resistenza estrema («Mi è piombata sulle spalle la sanguinaria epoca dei lupi»), la sua incrollabile dignità e, di riflesso, si comprende ancora una volta di quale brutalità lucida e spietata sia stato capace il regime sovietico sotto quel dittatore sanguinario che fu Stalin. Gli scrittori furono tra i suoi bersagli preferiti e pochi si salvarono dalla ferocia del regime.
Ruffilli cura un’edizione di alcune poesie del poeta russo, compiendo una traduzione che ne esalta la musicalità, il tono, la grande forza poetica. Una poesia la sua (influenzata sicuramente dalla conoscenza che ebbe dei versi danteschi) in controtendenza rispetto alla poesia lirica moderna che si andò affermando nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento in Europa: il movimento acmeista, di cui Mandel’štam faceva parte, intese contrapporsi a un simbolismo che non si interessava delle problematiche etiche e sociali, ma finalizzava il discorso, come si sa, alla rivoluzione linguistica e teorizzava addirittura il non senso in poesia. Mandel’štam riteneva invece che fosse necessaria «l’affermazione del principio terreno e sociale», quindi sosteneva che «per l’artista la visione del mondo è un’arma e uno strumento». Seppure questo non volesse dire una poesia da consegnare semplificata al lettore, egli non aveva «mai mosso un passo per venire incontro ai suoi lettori… non si preoccupava mai di essere capito, considerando ogni ascoltatore e interlocutore alla sua stessa altezza».
Le 41 poesie inserite nell’antologia spaziano dalle prime prove fino all’ultima fase della sua vita: tra le ultime colpisce la poesia intitolata Stalin, che possiamo definire più che politica, etica: «Viviamo senza avvertire più sotto di noi il paese,/ quel che diciamo non si coglie neppure a dieci passi/ si sente solo il montanaro del Cremlino,/ lo sbaragliamugicchi…» (i mugicchi sono i contadini sterminati dal dittatore). Ovvio che questa poesia determinò la discesa agli inferi del poeta, ma anche il più alto onore agli occhi delle persone libere. In una bellissima lirica rivolta alla moglie, la straordinaria Nadežda che salvò i suoi lavori e lo accompagnò per buona parte della sua tragica esperienza (conosciuta da Ruffilli, che ne raccolse le testimonianze), c’è lo sguardo rassegnato del condannato, in un ultimo respiro d’amore: «Quanto vorrei,/ non visto e non sentito,/ mettermi dietro a un raggio,/ stare là dove non sono./ Tu irradia dentro il cerchio/ – non c’è cosa più beata -/ e impara da una stella/ cosa significhi la luce./ Quel che ti voglio dire/ lo dico bisbigliando e via/ sottovoce affido al raggio/ te, bambina mia».
Mandel’štam è un uomo che vive il dramma sapendo che ha accanto la paura e che non può cancellarla nonostante la forza che lo anima; lo dice in una poesia, vivendo nel dolore che incalza la sua vita, lo dice in un colloquio con la moglie, pensando alla libertà: «Vedi un po’ a cosa ci ha ridotto la paura,/ compagno dalla bocca larga./ Vedi un po’ come si sbriciola il tabacco,/ schiaccianoci, stupido, mio caro amico./ Fischiarsi la vita come fa lo storno,/ mangiarsela come un dolce di noci./ Ma il desiderio più proibito…». Sa che il suo cammino è segnato («Sto nel cuore del secolo, incerta è la mia strada/ e ogni meta col tempo sfuma all’orizzonte»), sa che rimane solo il muovere lieve delle labbra, o meglio «lo scalpiccio operoso delle labbra», che mette in relazione con l’agire del flautista.
Paolo Ruffilli insiste su questa vocazione musicale del poeta, sull’associazione fra il compositore e il poeta, in quanto questi è chiamato, come dice lo stesso Mandel’štam, a «cogliere con estrema intensità e a esprimere un’unità armonica e semantica, preesistente e trasmessa chissà da dove, che andava incarnandosi a poco a poco nella parola». La sua parola è ricca e intransigente, amara e ironica («Sulla striminzita lista della nostra polizia,/ la notte si è ingozzata di pesci pieni di spini/ e cantano le stelle e i burocrati uccellini/ scrivono e riscrivono i loro rapportini»), visionaria e struggente («Sono tornato nella mia città, nota per me fino alle lacrime,/ fin nelle vene, fino alle ghiandole gonfie di infanzia./ Sei ritornato qui, e allora ingoiati senza indugiare tutto/ l’olio di merluzzo dei fanali di Leningrado accesi nella notte./ Hai ritrovato così dicembre e il suo giorno corto/ in cui al gusto della funesta pece si mescola il tuorlo d’uovo»).
Il grande poeta russo ci ha lasciato una miniera che tanti, come Ruffilli, frequentano con amore totale, perché la sua poesia si confronta con i dati cruciali della storia, e pure ha la nettezza di un dettato alto, misurato, perché sapeva che la poesia ha una sua esigenza interiore anche formale, e il poeta avveduto la “lascia” solo quando è compiuta, altrimenti, come diceva la Achmatova, tanto a lui vicina, «se ne mandi giù un surrogato, resti avvelenato per sempre».