Uno scrittore al cinema/1
L’Italia allo specchio
Cronaca di una visione del "Capitale umano" in un cinema della Roma-bene, tra insulti ai film e rimbrotti scemi. Perché siamo proprio come ci racconta Virzì!
«Questo s’è fatto dare la sovvenzione dallo stato per parlare male dei ricchi…. Ma perché lui cos’è, non è ricco lui? A me questi film paracomunisti mi mandano fuori dalla grazia di dio!». A parlare è una matrona in pelliccia, carica di gioielli, circondata da adolescenti pallidi, sciroccati e da un gigante con la faccia da militare. Allude al film Il capitale umano di Virzì, che lei ha appena visto mentre io sto per vedere, fuori di un cinema nel cuore di un quartiere-bene romano.
Entro in sala con mio figlio mentre il film sta cominciando. Un gran bel film, lo capisci già dalle prime scene, mai vista da anni una pellicola italiana così sapiente nella regia, nella costruzione drammaturgica, così priva di ammiccamenti manieristici e soprattutto così feroce con l’umanità che descrive: brianzoli straricchi (o che cercano di diventarlo e di sembrarlo), spregiudicati e volgari, con mogli belle e sensuali e annoiate che svolgono solo funzione di arredamento, figli estenuati dal lusso e dalle droghe e dall’alcol… Insomma un’umanità probabilmente simile a quella presente in sala. L’identificazione catartica non tarda ad arrivare. Una coppia accanto a me di signori di una certa età commenta: «Non so, c’è qualcosa che mi dà fastidio in questo film!», «Già, mette ansia…», «Sono tutti così… così…». Non conclude, la donna, l’ingiuria, qualunque sia, le resta in gola.
Intanto il film procede a ritmi serrati, implacabile nel suo spietato disvelamento antropologico: grande prova di attori per Bentivoglio, la Golino e tutti gli altri. Bentivoglio interpreta a meraviglia un personaggio tipicamente italico di questi tempi: piccolo imprenditore milanese cialtrone, borioso, ignorante, senza scrupoli, divorato da una smania di denaro e di affermazione sociale. E non mi si venga a dire che non è verosimile in quanto caricaturale: perché di individui del genere ne conosco più d’uno (brianzoli e non solo) che hanno fatto il bello e cattivo tempo in questo nostro disgraziato paese negli ultimi vent’anni, svillaneggiando, truffando, rubando indisturbati e anzi incoraggiati dallo stato e dai mezzi di comunicazione e dalle istituzioni in tutti i loro peggiori istinti. E comunque si tratta di un personaggio simbolico, reso, nella sceneggiatura e nella recitazione dell’attore, espressionisticamente, come nella tradizione della migliore commedia all’italiana, fra Pietro Germi e il Dino Risi del Sorpasso per intendersi.
Ma sono, a mio parere, perfetti anche tutti gli altri: la moglie di Bentivoglio, una Valeria Golino che di mestiere fa la psicologa, dolce, un po’ tonta, sempre straniata dovunque si trovi, che porta avanti la sua tardiva gravidanza capendo poco o nulla degli intrallazzi del marito che pure non fa molto per nascondere; e poi Valeria Bruni Tedeschi, fascinosa moglie di un magnate spietato e cinico interpretato, come meglio non si poteva, da Fabrizio Gifuni. L’attrice è quanto mai misurata nell’esprimere la noia accidiosa, l’ansia, le illusioni perdute, le piccole angosce quotidiane, a momenti anche la disperazione, che quella vita nel lusso le riservano. Non sappiamo molto del suo passato di attrice di teatro, una carriera che ha abbandonato ma che le è rimasta nel cuore. Sempre elegantissima (ricorda, non solo nel personaggio, ma anche fisicamente, la protagonista dell’ultimo Woody Allen, Cate Blanchett), la donna sembra riconoscere lo sfacelo morale, esistenziale che la circonda e in parte la permea. Ma, per convenienza o per viltà o per semplice debolezza, non riesce ad andare oltre l’adulterio con un commediografo ambizioso (Lo Cascio), qualche rimbrotto benevolo al figlio, che le risponde regolarmente male, e qualche battibecco col marito, che immancabilmente la rimette in riga con poche parole paternalistiche e sbrigative, tipo: «Va bene cara, ne parliamo dopo, adesso occupati del catering…». I due abitano una meravigliosa villa in collina tipo Beverly Hills, e sono genitori di un rampollo viziatissimo, irascibile e maleducato con tutti, che viene a volte riportato a braccio da amici misericordiosi dopo le feste alcoliche. Ed è proprio in una di queste nottate padane nebbiose che succede il fattaccio: viene messo sotto un povero cameriere da un Suv che sta per l’appunto riportando a casa il giovinastro sbronzo che si è pure vomitato addosso…. Ma la storia non ve la racconto, non vorrei sciuparvi la visione. Dirò solo che la sceneggiatura – scritta dal regista insieme a Francesco Piccolo e Francesco Bruni, liberamente ispirata a un thriller di Stephen Amidon, ambientato nel Conneticut – ricostruisce con maestria l’intreccio, saltando arditamente nei piani temporali della narrazione, com’è ormai d’uso frequente dopo Pulp Fiction non soltanto in America, rappresentando alcune scene madri da differenti prospettive.
Poco prima del finale però mi trovo costretto a chiedere permesso ai miei vicini per andare al bagno. Mi scuso naturalmente ed evito anche di tornare al posto per non disturbare una seconda volta. Mentre scorrono i titoli di coda mi accorgo che l’uomo anziano che era seduto accanto a me sta parlottando con mio figlio, sul volto del quale al sorriso subentra poco a poco una maschera contratta. Mi avvicino allora e chiedo lumi: «Papà, il signore dice che i tuoi abiti puzzavano di fumo e che loro sono allergici al fumo!». Resto interdetto a guardare quell’uomo elegante e stagionato, che conferma con la testa, senza riuscire a pronunciare una sillaba.