Nicola Fano
La morte del grande attore

La voce di un secolo

Aveva novantotto anni ma era "giovane": rigore morale e autoironia erano le sue doti principali. E per lui il teatro era una vocazione sociale e poetica. Ricordo di Arnoldo Foà

La voce, la pipa e la rabbia. Arnoldo Foà aveva smesso di tuonare appena prima dei novantotto anni, appena prima di lasciarci. Era burbero e serio, ma si faceva delle grandi risate. Ricordava tutta la sua vita per filo e per segno. Quasi ogni personaggio, che pure erano centinaia; quasi quanto i film e gli sceneggiati tv che aveva interpretato. Ma aveva una dote, soprattutto: raccontava il passato senza nostalgia; e senza nostalgia guardava avanti. Sempre. Non è mica facile! Tanto meno lo era per uno che aveva attraversato due guerre, il fascismo, l’Occupazione nazista, i rastrellamenti, la rinascita e la normalizzazione. E il berlusconismo. Perché Arnoldo Foà ha tenuto alto lo spirito critico fino alla fine.

Se avete letto un suo libriccino delizioso, Autobiografia di un artista burbero, pubblicato da Sellerio, sapete che cosa significava per lui ricordare senza imporre agli altri la propria memoria. Arnoldo Foà era dotato di due qualità vieppiù rare, da queste parti: il rigore morale e l’autoironia. Queste due qualità portava a teatro. Ed era facile, tutto sommato, perché il teatro nel corso del Novecento è stata una palestra di serietà (che non vuol dire seriosità: erano seri anche i comici). Il fatto è che Foà restava se stesso anche al cinema e in tv: un miracolo! Non era pedante né accomodante. Burbero, si definiva: io preferirei definirlo serio. Quando si doveva intervistarlo prima di un debutto, era un problema per noi cronisti ragazzini: perché bisognava prepararsi. Non bastava farsi dire due sciocchezze sullo spettacolo, occorreva fare almeno un paio di domande vere. Altrimenti lui si seccava. Intendiamoci, non faceva la primadonna né dava in escandescenze contro i cronisti, ma se si accorgeva che l’interlocutore era impreparato rispondeva a monosillabi e l’articolo non te lo portavi a casa davvero.

Teatralmente, era nato quando ancora furoreggiava come modernissimo il teatro proto-registico di Virgilio Talli (Foà era nato nel 1916, Talli era morto nel 1928). Faceva parte della covata dei “nuovi attori” che sarebbero stati cari a Silvio D’Amico o a Renato Simoni. Roba più vicina all’Ottocento e al “Teatro all’antica italiana” che all’oggi; eppure nel corso dei tanti decenni che ha attraversato non ha mai rappresentato un modello passato e passatista. Per dire, Sarah Ferrati o Paola Borboni, che pure miracolosamente hanno recitato fino a un’età veneranda, le ricordo come antiche. Interessanti per noi giovani spettatori degli anni Settanta e Ottanta ma solo in quanto simulacro di ciò che il teatro era stato. Invece Arnoldo Foà tuonava parole arrovellate dentro quella sua cassa toracica tempestata dal fumo per decenni: era moderno! Non mi pare l’abbia mai fatto, ma sarebbe stato magnifico nel Minetti di Bernhard. E invece aveva una grazia tutta sua nel fare Goldoni. Oppure me lo ricordo magnifico in un Ispettore generale di Gogol diretto da Guicciardini perché era un attore capace di fare da tramite: tecnica antica e sensibilità moderna.

Quando muore un personaggio così (positivamente) ingombrante nell’immaginario popolare si è portati a riflettere sul vuoto che lascia. Ebbene, quale vuoto lascia Arnoldo Foà? Attori bravi ce ne sono anche oggi. Attori dotati di buona tecnica e di grande voce ce ne sono anche oggi. Quello che manca sono attori dotati del suo spirito critico formidabile («mi fate tutti questi salamelecchi e mi trattate da maestro solo perché sono troppo vecchio!», diceva alla fine). Mancano attori consapevoli del ruolo poetico e culturale del teatro, la vanità non basta: ecco il vuoto che lascia il novantottenne Arnoldo Foà.

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