Poesia: “Inizio fine” di Daniele Piccini
Solitudine delle stelle
Una raccolta che contiene grandi e piccole domande sull'esistenza a cui il poeta risponde con altre domande che si fanno immagini, suoni, visioni tra materia e astrazione, tra luce e dolore. Nel solco di Mario Luzi e Piero Bigongiari
Inizio fine (Crocetti, 120 pagine, 12 euro) di Daniele Piccini è un libro di rara intensità: fondato su una spigolosa, struggente, melodia, si confronta con le domande cruciali che l’uomo da sempre si pone, nella forte attenzione a valori percepiti ormai come estranei. La poesia di Piccini (anche ottimo critico, estensore di una considerata antologia) si colloca nella grande tradizione della lirica moderna, perfettamente in linea quindi con un movimento poetico che ha fatto dell’oscurità, frammentata e tremolante, una cifra essenziale del proprio dire. Non importa scomodare nomi lontani (da Valery a Celan), bastano quelli di alcuni suoi conterranei che hanno, penso, inciso fortemente sulla sua scrittura, mi riferisco a Piero Bigongiari e, soprattutto, a Mario Luzi, di cui peraltro Daniele Piccini curò nel 2002 il volume Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura. Piccini, sulle orme dello stesso Luzi, fa della poesia, come pochi altri, un esercizio del pensiero, che si confronta incessantemente con i tanti scenari, piccoli e grandi, che siamo chiamati, spesso inutilmente, a interpretare.
Il poeta affronta questi temi muovendosi tra un dolore controllato a una serenità dolce (“La vita ti accendeva/ di nomi improponibili una volta,/ ora lasciala entrare, lascia/ che ti prenda tutto”) e sempre, comunque, emerge nella sua scrittura uno spirito caritatevole, direi ospitale, quella carità del pensiero che più che forzare il discorso con perentorie assolute risposte sul senso della vita, delle cose del mondo, della fragilità della natura umana, dei limiti della sapienza, accoglie in sé il senso della interrogazione continua, della domanda continua. Ecco il libro di Piccini è costellato da ripetute domande, a cui egli risponde con altre domande, fino a costruire una immensa preziosa scena di immagini, di suoni, di elementi fisici e astratti, di visioni delicate. In una spiritualità occultata ma presente. Nella poesia iniziale, parla della infinita catena che ci unisce al passato e ci colloca nell’ignoto futuro, per poi sentire l’esigenza di tornare verso l’origine: “Le lucciole gremivano la storia,/ il desiderio allungava il suo morso/ ma noi, oscuri a tutto, intemerati,/ non eravamo nati come parte/ della materia muta che obbedisce./ E sì, ritorneremo… chiunque chiami”. C’è lo sconcerto che accompagna la vista delle grandi cose che ci stanno attorno e che ci rendono quasi interdetti: dall’“enorme solitudine delle stelle” allo smarrimento della morte: “Battezza a vuoto, infiniti, la morte:/ quando veniva si piangeva a dirotto,/ ora è solo sgomento, solo furia,/ puro, cieco stupore”. Fino a sentirsi quasi abbandonati alle domande che non si possono evadere, eppure c’è la traccia di un lume vicino, a confortarci: “Ho toccato stanotte/ i confini del cosmo,/ di là una coltre lattiginosa,/ il vuoto a confinarlo./ Qui cominciò la nenia, qui finisce/…/ Fa’ che chiuda, fa’ che chiuda le mani/ a stringere qualcosa, fosse pure/ la mano di qualcuno andato via/ ma che lasci la traccia nella mano/ fa’ che ci sia, tra una lucciola e l’altra,/ ancora la mia vita”.
C’è lo sconcerto che accompagna il poeta alla vista di animali sacrificati, in una bellissima poesia dall’ampio sguardo: “Li vedi e li distingui con stupore/ gli animali accucciati/ nelle piccole gabbie d’autotreni./ Li vedi che si stringono, che tremano./ È una forma divina o una ferita/ la vita in questa terra/ che semina col sangue/ la scia di segni per capire, scendere,/ risalire…”. Un’altra poesia si addentra nel gesto semplice “del vecchio che beve vino” in una logorata osteria di un’Italia “poverissima e arcana”, un’Italia vissuta ancora con decoro, non dannata, stridula, carogna, perché “ogni scelta è fra una vita e una morte” ed è necessario “cercare fondamento,/ non la replicazione, mai più”, lasciando “che mi trafori quello sguardo/ di antica madre: lo metto tra gli altri/ moniti che dimentico nel sonno”. È una poesia dolente la sua, il dolore scorre nelle vene di questi versi, eppure Piccini ci dice che il dolore è comunque necessario: “Se il dolore non fosse questa spina,/ questa lunga dorsale della vita/ forse non saremmo altro che niente,/ e dobbiamo ringraziare/ che ci venga a visitare e ci porti/ notizia delle cose/ che nell’ombra ci appaiono e nel turbine”. Ma pure il pianto insiste quando ricorda una perdita irreparabile: “Sul momento non sembra/ e pare che di nuovo si può vivere/ ma la morte che toglie via il più caro/ è come un buco nella tela, o altro/…/ non sarà più lo stesso senza quello/ che non ha avuto tempo/ di darti un solo abbraccio andando via”. Poesia dolente certo, ma ancorata comunque a slanci di luce. Versi infine dolci che giungono dopo un passaggio ferrato, complicato. Poesia colma di vera, toccante, emozione, come in questa che regaliamo al lettore:
Ora è il tempo di entrare nell’inverno.
Sfiammata la stellata,
è la via irta battuta dai tordi,
dai tempestosi suoni dei colombi,
dai soffi delle tortore
che si ripetono al mondo.
Batteranno ore e ore alla torre
di un borgo, senza alcuno a
svegliarsi, senza l’alba
protetta da un chiamare.
Ora vieni, che è inverno,
scendi con noi a distendere ossa
dissaldate dal freddo,
il sangue morto dell’anima idraulica
sì che si svegli il soffio. O scenda immane,
doppia e senza fiammella, un’altra pace.