Laura Novelli
In scena al Vascello di Roma

La poltrona di Cesare

Continua la sua fortunata tournée il "Giulio Cesare" shakespeariano di Andrea Baracco. Un apologo sulla politica e sul dubbio, dove tutti ambiscono a sedere sul potere. Per sprofondarci dentro

Gli incontri tra un regista e un testo non sono mai casuali. Rispondono semmai a delle urgenze (o a degli innamoramenti) intellettuali che spesso richiedono molto tempo per essere soddisfatte, o per lo meno indagate. Non ci sembra infatti un caso che Andrea Baracco, proprio mentre sta lavorando ad un nuovo allestimento di “Amleto” (su drammaturgia di Francesca Macrì e impianto scenico di Roberta Zanardo e Luca Brinchi, artisti dei Santasangre) che vedremo a giugno all’Argentina, continui a girare la Penisola con una fortunata messinscena del Giulio Cesare realizzata nel 2012 e chiamata, lo stesso anno, a rappresentare l’Italia in seno alla rassegna “Globe to Globe” di Londra. E non ci sembra un caso per un fatto molto semplice: il dramma classico di Shakespeare – ispirato come è noto a Le vite parallele di Plutarco e teso a raccontare l’assassinio di Cesare e le terribili conseguenze che ne derivano – venne composto presumibilmente proprio nello stesso periodo della tragedia danese.

La sublime universalità dei personaggi in gioco e dei temi trattati parrebbe cioè stuzzicare l’idea che lo sfascio politico ed etico partorito dalla violenza e dal sangue sia, in questo momento, l’area di indagine su cui si concentra l’interesse del regista romano (che qui ha anche adattato il testo insieme con il drammaturgo Vincenzo Manna, compagno di lavoro pure in precedenti esperienze) e, soprattutto, dentro la quale il suo immaginario scenico cerca di trovare linee di scrittura contemporanee. Perché in fondo la moderna incertezza di Amleto somiglia alle iniziali paure di Bruto; la tremante fragilità di Ofelia fa venire in mente il delirare luttuoso di Calpurnia; la perfidia contagiosa di Cassio richiama la scelleratezza di Claudio e l’ipocrisia di Antonio potrebbe andare a braccetto con quella di Polonio.

Nel Giulio Cesare di Baracco (ora in cartellone al teatro Vascello di Roma) sparisce dunque l’impianto originale dell’opera a vantaggio di una visione se vogliamo più compatta, che si concentra solo su alcuni nuclei tematici, personificandoli nelle poche figure in scena, tutte in abiti moderni, e focalizzando la spirale dei fatti e misfatti agiti (o narrati) soprattutto sulle venature ambigue di Bruto, ruolo nel quale troviamo un eclettico Giandomenico Cupaiuolo. Musica onnipresente. Scena vuota, quasi sempre buia. Solo tre porte, continuamente trascinate, girate, scavalcate dagli attori, funzionano come quinte mobili atte a raffigurare ogni luogo (e dunque, in senso traslato, il non-luogo del Male) e a divenire via via strutture praticabili dietro cui essi si nascondono o sulle quali si siedono, cadono, si sdraiano, si moltiplicano.

giulio cesare Baracco2Altro elemento scenico altamente simbolico è poi una poltroncina di foggia ottocentesca che, bucata al centro, parrebbe alludere alla caduta del potere, al baratro che si apre sotto i piedi dell’ambizione, al vuoto istituzionale scavato dall’effetto della congiura. Cassio (Roberto Manzi, non sempre in grado, secondo noi, di dare profondità al personaggio) vi si siede per primo: Cesare è ancora in vita ma le sue mire tiranniche annunciano rischiose costrizioni della libertà (tema molto forte nel dramma, insieme con quello dell’onore) e il cospiratore ha già in mente l’omicidio.

Ma è solo l’entrata di Bruto e Calpurnia a far lievitare lo spettacolo (animato anche da Antonio/Gabriele Portoghese, Porzia/Livia Castiglioni, Casca e Ottaviano/Lucas Waldem Zanforlini), a dargli una fisionomia più chiara. Il primo sembra quasi un guitto dalla facondia facile e a tratti vorticosa che corre, salta, dilata l’azione con continue ripetizioni quasi volesse anticipare con il corpo le numerose variazioni emotive che gli sono proprie. La moglie di Cesare, che ha il corpo e la voce dell’espressiva Ersilia Lombardo, indimenticabile protagonista di Vita mia di Emma Dante, è in preda invece ad una sorta di delirio folle e tremante che si traduce in una danza paranoica e, anch’essa, ripetitiva: i movimenti stanno al posto dei pensieri, degli incubi, dei presagi di morte; li esprimono in forma sempre più concitata. È un modo di pensare alla regia che ricorda, per certi versi, Nekrošius, la stessa Dante e che ci ha fatto venire in mente lo straordinario Juli Cèsar messo in scena dal catalano Álex Rigola qualche anno fa e visto al teatro India: i congiurati correvano come maratoneti instancabili e l’eleganza stilistica dell’impianto scenico restituiva quello stesso senso di disfacimento politico e spirituale contemporaneo che è, pur con approdi stilistici diversi, l’asse portante  del lavoro di Baracco.

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