Lettera dagli Usa
La guerra giusta
...è quella contro la povertà. La lanciò negli States Lyndon Johnson, cinquant'anni fa, e ora l'ha rilanciata Obama: «La nostra è una missione economica e morale»
Dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel novembre del 1963, sarebbe stato difficile per chiunque sostituirlo. Tanto più quando non si aveva lo stesso carisma, gli stessi look e charme, una famiglia blasonata alle spalle e neanche modi di fare accattivanti. In più non si era né giovane né bello e non si aveva una moglie che era divenuta un’icona venerata da tutta la stampa nazionale e internazionale. Così quando Lyndon Johnson si trovò di fronte all’immane compito di sostituire il presidente più amato degli Sati Uniti scomparso così prematuramente e già divenuto un mito, capì che avrebbe dovuto compiere uno sforzo titanico. Inoltre, il paese era in grande tumulto, da un lato perché si lottava aspramente per i diritti civili, dall’altro perché la guerra in Vietnam continuava e mietere vittime e non si intravedeva alcuna soluzione a breve termine. E i movimenti pacifisti si battevano per terminare questo sanguinoso conflitto e divenivano ogni giorno più aggressivi.
L’espressione torva, i modi bruschi al limite dell’ignoranza avevano guadagnato a Johnson l’antipatia del clan Kennedy, soprattutto di Robert che lo trattava con distacco e sufficienza. E certo anche il paese, quando Johnson prestò il suo giuramento per ricoprire la carica di presidente, non riusciva a vedere in quella figura di uomo politico una consolazione alla recente perdita.
Tuttavia sebbene successivamente l’escalation del conflitto in Vietnam lo abbia inviso alle giovani generazioni e a tutti i movimenti pacifisti del mondo e ingiustamente consegnato alla storia solo per quella scelta, il “duro” texano fu invece un presidente che almeno in politica interna portò a termine grandi conquiste democratiche di cui ancora oggi si godono i benefici. Riuscì infatti a varare una legge sui diritti civili, realizzò Medicare ( l’assistenza medica gli ultrasessantacinquenni) e Medicaid (l’assistenza medica gratuita ai più bisognosi). E infine proprio cinquanta anni fa dichiarò guerra alla povertà, quella che fu chiamata The War on Poverty. Alcuni storici tra cui Robert Caro nel suo saggio dal titolo The Years of Lyndon Johnson. The Passage of Power affermano addirittura che il texano di ferro sia stato assieme a Franklin Delano Roosevelt e al suo New Deal uno dei presidenti che ha compiuto il maggior numero di riforme democratiche strutturali nel paese.
Nel suo discorso dell’8 gennaio 1964, il primo alla nazione da presidente recentemente commemorato da Obama, Johnson affermò: «Non ci fermeremo finché questa guerra non sarà vinta. La nazione più ricca del mondo può certamente essere in grado di vincerla. Non ci possiamo assolutamente permettere di perderla». La guerra alla povertà iniziata sotto la presidenza Kennedy prese tuttavia forma sostanziale solo sotto il comando di Johnson. Alla prima riunione che avvenne subito dopo l’assassinio di Kennedy lo stesso 22 novembre 1963 era presente anche il presidente della commissione economica Walter Heller il quale riferì al nuovo presidente le intenzioni di Kennedy di varare un programma contro la povertà in un paese in cui 1 cittadino su 5 era a rischio. Scrive Caro nel suo saggio: «Johnson alla fine della riunione dopo avere mandato via tutti chiuse la porta in maniera da potersi trattenere a parlare con Heller un altro paio di minuti. Quando Heller gli chiese “Mr. President, a quale velocità vuole procedere con questo programma?” Johnson rispose “Vai subito a briglia sciolta”».
Ma perché la guerra alla povertà era così cara al texano di ferro? In fondo questo era un programma varato dal suo predecessore e questo per lui era il momento di lasciare una traccia nella storia del paese e della sua presidenza con un suo tocco personale, che lo facesse ricordare per la sua unicità. Ma Johnson aveva un passato che gli bruciava ancora; aveva vissuto personalmente cosa significava la povertà. E l’aveva vissuta da bambino quando suo padre che era un rispettato uomo d’affari e un politico rispettabile improvvisamente perse tutto e la sua famiglia si ritrovò in una casa che da un momento all’altro poteva finire nelle mani delle banche. Non solo spesso e volentieri doveva dipendere dalla generosità dei vicini che portavano loro qualcosa da mangiare. Ed essere poveri in un piccolo centro fu un ‘umiliazione talmente grande che Johnson non lo dimenticò mai. Dunque la parola “guerra” sembrò quella più adatta ad un “duro” dal carattere pugnace come Johnson che quando combatteva le sue battaglie politiche non risparmiava gli avversari. E questo decisamente gli sembrava un nemico molto temibile. Anche perché il presidente aveva capito bene che la povertà prospera «dove mancano l’istruzione e la disciplina, le cure mediche, case adeguate e una comunità decente in cui vivere». Nel suo discorso alla nazione dipinse un quadro lucido del problema. «Ci sono troppe persone emarginate in questo paese che vivono senza speranza. Alcuni – disse il presidente – a causa della povertà, alcune a causa del colore della pelle e troppi, ancora troppi, per tutte e due queste ragioni. Il nostro obiettivo è aiutarli a rimpiazzare la disperazione con la creazione di opportunità. L’amministrazione oggi, qui ed ora dichiara una guerra incondizionata alla povertà in America». Così a seguito del varo della legge sulle opportunità economiche (Economic Opportunity Act) fu istituito l’ufficio omonimo (Office of Economic Opportunity: OEO) che servì ad amministrare i fondi a livello locale per diminuire la povertà.
Johnson fu un fautore della strategia di espansione del ruolo governativo nel campo dell’istruzione e della sanità con un ampliamento dei programmi di welfare varati in precedenza. In questo senso, rappresentò un elemento di continuità con il rooseveltiano New Deal. Purtroppo le forme di deregulation dell’economia che seguirono, specie negli anni ’80 sotto la presidenza Reagan, non costituirono un elemento di continuità con questo programma. Naturalmente le critiche non mancarono neanche allora. Ad esempio Martin Luther King nel 1967 quando la guerra in Vietnam subì un’escalation, affermò, legando la guerra alla povertà al conflitto in Vietnam, che non era possibile eliminare l’una (la povertà) senza eliminare l’altra. «Purtroppo c’è un legame stretto tra la guerra in Vietnam e la guerra alla povertà. Alcuni anni fa c’erano stati momenti di luce. Era sembrato possibile dare una speranza ai poveri – sia bianchi sia neri – attraverso i nuovi programmi che combattevano la povertà. Si tentarono nuovi esperimenti, c’era la speranza di un nuovo inizio. Poi, con il crescendo del conflitto in Vietnam, ho visto il programma spappolarsi sotto la pressione di un paese impazzito sotto il peso della guerra. Capii allora che l’America non avrebbe mai davvero investito fondi o energie per risolvere il problema della povertà finché l’avventura del Vietnam avrebbe continuato a succhiare vite umane, energie e soldi come un’idrovora demoniaca che distrugge tutto. Forse il più tragico riconoscimento di questa realtà avvenne quando apparve chiaro che la guerra compiva devastazioni molto più grandi che distruggere le speranze dei poveri qui a casa nostra».
Così la visione e le intuizioni di giustizia sociale di Johnson vennero offuscate da un conflitto che sprecò più di 55.000 vite umane. La guerra esportata in un altro paese offuscò quella che doveva essere combattuta a casa. E fu devastante. Per combattere l’ideologia comunista si dimenticarono le istanze di giustizia sociale. Un’ ironia alquanto bizzarra in questo caso, che mostra tuttavia ancora una volta quanto le ideologie siano state accecanti.
Nel suo discorso alla nazione di pochi giorni fa Obama, commemorando i cinquanta anni del discorso di Johnson, ha tuttavia ricordato che la guerra alla povertà è tutt’altro che terminata in questo paese. «Siamo un paese che mantiene le proprie promesse – ha affermato Obama –. E nel 21esimo secolo faremo in modo che l’economia americana divenga più forte e che questa crescita non lasci nessuno indietro. Perché nonostante tutto quello che è cambiato in questi 50 anni da quando il presidente Johnson ci ha iniziato a questa fondamentale missione economica e morale c’è una costante che ci appartiene e che non è cambiata ed è il fatto che siamo un paese e un popolo che risorge o cade unito».