Cinema e letteratura
La fine di Bartleby
Le storie esemplari attraversano i generi: alle volte in un film si possono trovare anche germi letterari lontanissimi. Come nel bellissimo "Still Life" di Uberto Pasolini
Io non sono un critico cinematografico: non ne ho né le competenze né le conoscenze tecniche. Non voglio nemmeno mettere le mani avanti… o meglio… invece, sì… intendo dire che mi voglio riservare la libertà di dire le mie impressioni di spettatore, senza pretendere né di approfondire il discorso né tantomeno di dare alcuna autorevolezza a quel che dico.
Detto questo (che era doveroso per chiarire bene le cose, considerando inoltre che su queste pagine scrivono persone ben più prestigiose e competenti di me in materia: cliccate qui per leggere la recensione di Alessandro Boschi), vi vorrei segnalare un film che ho visto. Il titolo è Still Life: io l’ho visto nella più piccola sala di cui dispone il cinema Eden a Piazza Cola di Rienzo a Roma, una saletta minuscola con appena una cinquantina/sessantina di posti. Già questo vi dà l’idea del taglio di nicchia, raffinato e coraggioso, perché scevro da compromessi, che lo caratterizza. Il titolo – mi dicono – significa natura morta. Riporto da Wikipedia: «Nel campo della pittura il termine inglese Still Life si può tradurre in italiano con “natura morta” cioè una raffigurazione pittorica di oggetti inanimati (fiori, frutta, ortaggi, selvaggina, oggetti d’uso). Nel campo della fotografia questo termine è stato ripreso per descrivere la tecnica fotografica di qualsiasi oggetto inanimato. La tecnica della fotografia Still-life presenta alcuni aspetti semplici ma è più difficoltosa di quanto possa sembrare a prima vista… Il soggetto è quello inquadrato e sta fermo, per cui c’è tutto il tempo di impostare la macchina fotografica e le regolazioni sono quasi sempre le stesse…. Il risultato da raggiungere in una foto still-life di solito non è complicato. In genere lo scopo è quello di creare un documento che metta in risalto gli attributi più importanti dell’oggetto».
Il punto è che l’oggetto in questione è l’essere umano, o per meglio dire, è l’essere umano da morto. Ma non è propriamente un film sulla morte: è un film sulla straziante compassione con cui la morte accumuna tutti, ma proprio tutti senza distinzioni di nessun genere. La lucidità di sguardo di questo film (che mai distoglie gli occhi, eppure senza un filo compiacimento morboso) fa ricordare molto bene perché gli antichi greci per definire gli uomini si riferissero alla loro condizione primaria: i mortali.
La storia è quella di un semi-abbandonato impiegato comunale londinese che ha l’incarico di provvedere al disbrigo delle questioni inerenti ai funerali di coloro che erano rimasti soli, dimenticati o rifiutati da tutti, e di cui nessuno si occupa. Il contrasto tra lo squallore delle ambientazioni Still life e la sensibilità, la delicatezza e la commossa profondità con cui si muove lo straordinario attore protagonista sono indimenticabili. L’eccezionale ricchezza interiore che traspare dalle parole del protagonista accomuna la forza compassionevole degli “umiliati e offesi” con l’irreprensibile e ossessiva interiorità dello scrivano Bartleby. I suoni di una primavera straziante e bellissima nei cimiteri sono un contrasto eccezionale (e un poco segreto) che accompagna una colonna sonora tanto discreta quanto la bellezza di questa pellicola. La commozione non cede mai dall’inizio alla fine, non una scena inutile, non una sbavatura di nessun genere ci distolge l’attenzione. Non vorrei aggiungere altro (e mi verrebbero tante cose da dire) per non sciuparne l’effetto: andate a vederlo.