Gianni Cerasuolo
A proposito delle "Voci di dentro"

Il naso dei Servillo

I due fratelli che interpretano Eduardo recitano uniti come se volessero proteggersi, sorreggersi, quasi fondersi in un unico personaggio: menecmi moderni destinati a separarsi piuttosto che a ritrovarsi

Sulla scena quasi si sovrappongono, stanno appiccicati l’uno sull’altro, l’uno accanto all’altro, il profilo dell’uno che combacia con il profilo dell’altro se si prendono i loro nasi come punto di riferimento: due propaggini uguali. E soltanto alla fine si staccano, uno in un angolo, l’altro nell’angolo opposto, una diagonale geometrica e ostile. Una specie di ring. Alberto/Toni seduto con le mani sulla faccia e piegato in due, disperato, Carlo/Peppe accasciato sulla sedia, diritto e rigido con il sedere in punta e la testa appoggiata alla spalliera della seggiola quasi come la posa di Ferdinando/Toni nella Trilogia goldoniana di sette anni fa. Solo che lì c’era una espressione soddisfatta, qui il segno della disgregazione.

Un filo straordinario – quasi un cordone ombelicale – lega i due Servillo sulla scena delle Voci di dentro eduardiane. Eduardo e Luca De Filippo, padre e figlio, diedero vita, nell’edizione televisiva del 1978, ad una rapporto di cattiveria e di ostilità tra i due fratelli Saporito, i protagonisti della commedia. Luca aveva la stessa furbizia spregevole e fannullona del Nennillo di Natale in casa Cupiello. Qui invece Peppe Servillo è più arrendevole e sottomesso al fratello maggiore, Alberto/Toni. È una specie di approfittatore moderno, uno che potrebbe chiedere il pizzo senza fare la facce feroce del delinquente.

Ho acciuffato le Voci di dentro nella versione dei Servillo al Teatro San Ferdinando di Napoli – il teatro di Eduardo – dopo aver “bucato” la scorsa stagione lo spettacolo all’Argentina a Roma. Non sono un frequentatore assiduo del teatro ma i testi eduardiani sono come una calamita. Le mie origini napoletane spiegano in parte. Ad attrarmi verso il grande drammaturgo e attore ci si è messo di mezzo molti anni fa un posto che si chiamava l’Unità – quando stava ancora in via dei Taurini, San Lorenzo, Roma, nella palazzina divisa con Paese Sera -;  al secondo piano, prima porta a sinistra, c’erano gli Spettacoli come si usava dire nei giornali, e in quella stanza insufficiente si muoveva una piccola banda di pazzi geniali, giovani e anziani, difficili da maneggiare ma moltiplicatori di interessi e curiosità: mi fecero conoscere Totò e Pasolini, il teatro e il jazz.

Dunque, l’altra sera ho osservato a lungo i fratelli sulla scena scarna e mi ha colpito quello stare spesso l’uno vicino all’altro dei due Servillo. Come se volessero proteggersi, sorreggersi, quasi fondersi in un unico personaggio, menecmi moderni destinati quindi a separarsi piuttosto che a ritrovarsi. Accade nel primo tempo in casa di Pasquale Cimmaruta – la famiglia che avrebbe eliminato l’amico di Alberto Saporito,  Aniello Amitrano – quando i due fratelli cercano di incastrare i presunti omicidi in attesa che arrivi la polizia. Entrambi sono seduti accanto ad un tavolo, di fianco, quasi per farsi coraggio e sostenersi nel sottolineare frasi e atteggiamenti dei Cimmaruta che a loro appaiono ambigui e criminali. I due adocchiano una credenza dietro la quale, immaginano, ci sono le prove del delitto. Alberto Saporito, cioè Toni Servillo, espone la teoria dei morti uccisi che restano dentro i mobili, dentro una sedia: «’A notte sentite: “Ta…”. È ‘ nu muorto ca s’è mmiso dint’ ‘o lignamme ‘e nu mobile..perciò nun putimmo durmì ‘a notte, don Pasquà».

Carlo Saporito, cioè Peppe Servillo, segue questo ragionare, approva, fa gli stessi gesti, le stesse smorfie. Perché alla fine bisogna guardare le facce dei Servillo, le espressioni di muscoli coperti appena dalle barbe, le guance scavate e sofferenti, incapaci di distinguere tra sogno e realtà. Accade nella seconda parte in casa Saporito, prima che ’zi Nicola spari il bengala verde, quello della partenza definitiva. I due fratelli sono di nuovo seduti vicino ma l’uno di fronte all’altro e Carlo cerca di appropriarsi alle spese di Alberto del “patrimonio” di sedie sgangherate e apparati per le feste, il “capitaluccio” lo chiama, convincendo Alberto a firmargli una carta per vendere ogni cosa e intascare i soldi. E intanto continua a chiedergli ossessivamente: «Ma tu ‘e tiene ‘e carte?» cioè le prove per accusare i vicini di casa. Accade infine, nella parte conclusiva, quando Alberto chiama Carlo e fa finta di voler firmare quella carta. È l’epilogo tra i due, poiché Alberto molla un ceffone al fratello mormorando: «Se non hai capito, te lo spiego un’altra volta». Da lì i fratelli si staccano, diventano due corpi separati, due anime, soli, divisi, pronti a dilaniarsi tra di loro come poco prima avevano fatto i Cimmaruta accusandosi a vicenda.

Anche Toni e Peppe Servillo si divideranno dopo questa esperienza, senza traumi e rotture, ognuno per la sua strada, il cinema, la musica, ancora il teatro. Non saranno sempre applausi e recensioni favorevoli. Poco importa: insieme o divisi, vicini o lontani loro sono la Grande Bellezza di questo Paese sciagurato.

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