Grammy Awards alla carriera ai Fab Four
Beatlesiana
Stasera Paul McCartney e Ringo Starr tornano a esibirsi insieme a Los Angeles. Cinquant'anni dopo il loro primo sbarco negli Usa per una tournée che segnò la loro consacrazione internazionale. Ne parliamo con il critico musicale Filippo Bianchi
Erano in diecimila. Diecimila fans urlanti che cinquant’anni fa li aspettavano all’aereoporto di New York. Era il febbraio del 1964 quando i Beatles sbarcarono negli Usa per la loro prima trasferta intercontinentale, pronti ad affrontare una tournée che tra le varie tappe prevedeva il Carnagie Hall nella Grande Mela, il Washington Coliseum a Washington D.C, e la partecipazione all’Ed Sullivan Show che rimase storica anche perché durante la loro apparizione il numero di crimini registrato a New York, specialmente minorili, fu quasi azzerato. Sarà anche per questa ricorrenza che la giuria dei discografici americani ha assegnato i premi alla carriera 2014 dei Grammy Award, praticamente gli Oscar della musica, ai Beatles, ai quali si riconosce il merito – insieme agli altri premiati di quest’anno: il nostro Ennio Morricone, Kraftwerk, Kris Kristrofferson e Isley Brothers – di essersi «distinti fornendo un contributo essenziale al mondo discografico». Per l’occasione, e in memoria dei vecchi tempi, i due Fab Four sopravvissuti al loro mito, cioè Paul McCartney e Ringo Starr sembra tornino insieme sul palco stasera in uno show dedicato ai Beatles al Convention Center di Los Angeles.
Dopo quel tour che segnò la loro definitiva scalata al successo, i quattro di Liverpool ne affrontarono altri, sempre caratterizzati da quella possessione travolgente che come moltiplicandosi per contagio invadeva i fortunati teenager presenti ai concerti, inducendoli a scomposte e liberatorie reazioni fisiche. Anche all’Adriano di Roma, in quel giugno del 1965, dove proprio per l’imprevedibilità delle reazioni giovanili, davanti al teatro, c’erano schierate in tenuta antisommossa le forze dell’ordine che però rimasero inattive. Altri tempi, e forse anche altra gioventù. È da qui che prende avvio la mia conversazione con Filippo Bianchi, che all’Adriano c’era, critico musicale, grande conoscitore dei saperi di Euterpe, esperto di jazz, ex direttore di Piano Time e di Musica Jazz, segnato fin da subito dalla passione per i Fab Four.
I giovani li hanno inventati i Beatles?
Sì. E viceversa, come sempre. L’ultimo verso dell’ultima canzone registrata dai Beatles dice and in the end, the love you take is equal to the love you make, che è l’epigrafe finale e perfetta di tutta la loro vicenda, perché descrive con grande senso della sintesi e con grande efficacia il processo di assoluta osmosi che questi quattro ragazzini di Liverpool hanno avuto con un’intera generazione. Anche se Marx non va più molto di moda, proviamo a fare un’analisi più strutturale. I Beatles hanno segnato molto il loro tempo, ma sono stati anche un segno dei tempi. Ci sono moltissime circostanze che hanno favorito questo processo: intanto i giovani esistevano per la prima volta nella storia anche come soggetto di mercato, ed esistevano perché improvvisamente erano tanti. Prima non erano mai stati così tanti, perché per lo più morivano nelle guerre. Gli anni Sessanta sono il più lungo periodo che, dopo secoli, questo continente abbia passato senza guerre, e quindi i giovani in quel momento sono tantissimi. In Inghilterra è stato appena abolito il servizio militare obbligatorio e quindi hanno anche più tempo. Siamo al centro di quella che il grande storico marxista Eric Hobsbawm definisce «l’età dell’oro» e che dura, più o meno, dal ’45 al ’75, cioè quel periodo della storia dell’Occidente in cui le aziende aumentano i profitti e la popolazione aumenta il proprio tenore di vita: ce n’è per tutti. È uno dei pochi momenti nella storia dell’umanità, nel nostro continente di sicuro, in cui c’è un fortissimo interclassismo, c’è una grande mobilità sociale che non c’è mai stata prima. La ruling class non va molto di moda. I Beatles vengono usati dai media inglesi anche come alternativa working class allo scandalo Profumo, che è un mattone sulla reputazione della ruling class inglese. Dunque, i giovani sono tanti, hanno tempo, hanno i quattrini che prima non avevano mai avuto, sono appena state sconfitte le malattie veneree e da tutto questo fiorisce qualcosa di enorme, di planetario. I Beatles, giovani, belli, scanzonati, originali sono il centro di questa fioritura.
Ma prima di loro in America i giovani esistevano già…
Erano appena stati inventati. In America cominciano a esistere col rock ’n’ roll. In Europa questo fenomeno viene importato e probabilmente il fatto che se ne giovino quattro ragazzini di Liverpool non è causale. Perché Liverpool non è solo una porta verso il mondo come tutte le città portuali, ma ha anche un filo diretto con gli Stati Uniti attraverso i Cunard Yanks, cioè quei marinai imbarcati sulle linee Cunard che portano dall’America informazioni di prima mano. All’epoca non c’era internet. In Inghilterra di quello che succede in America non sanno nulla, ma ci sono i marinai che prendono il disco di Chuck Berry e c’è Lonnie Donegan che rilancia lo skiffle e che trasforma alcune forme americane in forme nutrite di elementi autoctoni. Quindi Liverpool è fondamentale da questo punto di vista. È poi anche il luogo dei comedians. Tutti i più divertenti comedians inglesi vengono da Liverpool, che è, per intenderci, un po’ come Livorno in Italia, un luogo dove la gente è facile alla battuta tagliente, ha una simpatica arroganza. E i Beatles sono tutto questo.
Insomma c’è il progresso sociale a spingerli verso la creatività…
Nell’ultima intervista che esiste di John Lennon, fatta da una televisione americana, a un certo punto l’intervistatore gli chiede come i Beatles avessero deciso di fare quello che avevano fatto e Lennon gli risponde: «Eravamo andati al cinema a vedere Elvis, e lui aveva tutte quelle grandi macchine, tutte quelle ragazze… E noi abbiamo pensato: questo è un buon lavoro». Una spiegazione fantastica nella sua semplicità, che spiega molto delle ambizioni di uno sfigato di Liverpool, orfano di padre e di madre, nato sotto i bombardamenti, cresciuto con una zia rompiscatole, che però è andato alla scuola d’arte. Per questo rabbrividisco quando la sinistra difende l’esistente: c’è un problema di valori. Per esempio, l’anzianità: il progresso sociale è affidato al fatto che invecchi. Non è una cosa esaltante. Quei ragazzi di Liverpool, giovani di sinistra, laburisti, di quel mondo lì, dell’esistente, non ne vogliono sapere. Loro come gli eroi dei film di Tony Richardson, di Karel Reisz… Non ricordo in quale film, c’è una madre che mette in guardia il figlio dal fare la sua stessa vita di fatica e sacrificio: lei non l’ha fatto perché il figlio faccia the same, vuole per lui un’altra cosa. Perché, contrariamente a oggi, il progresso sociale è visto come una cosa non solo possibile ma perfino probabile.
Era decisamente un altro tempo.
Sì, visto con gli occhi di oggi fantascienza.
C’è da credere allora che la creatività esiste più nello sviluppo che nella recessione?
Una volta feci un’inchiesta sul rapporto tra Istituzioni e cultura in Europa: a Parigi, a Ginevra, ad Amsterdam e a Londra, alla fine degli anni Ottanta. Venne fuori che Londra – che era ancora in pieno thatcherismo o post thatcherismo, quando sulla cultura si era passati col caterpillar, mentre in Francia si investiva mettendo quattrini come dentro una fucina – bene, tutto sommato il luogo più creativo sembrò Londra. Dunque, a volte, può essere vero anche il contrario, ma certamente quando c’è una situazione di sviluppo questo si trasferisce ovunque. E le arti sono in rapporto di interdipendenza con la società. Adesso, non a caso, è stagnazione, palude e le cose di quarant’anni fa vengono oggi proposte come nuove.
Tornando allora indietro con la memoria, tu che l’hai respirato a pieni polmoni come descriveresti lo spirito di quel tempo?
Lo spirito del tempo, lo Zeitgeist che aleggiava era basato sul fatto, persino esagerato, che tutto quello che c’era ieri, era ieri. Mi rendo conto che ci fosse anche una componente estremistica, ma a me nel 1963 non solo non c’era verso di farmi ascoltare Frank Sinatra, ma persino Elvis Presley mi sembrava il reperto di un’altra epoca. C’era una totale disponibilità verso il nuovo, una domanda di mercato vorace per qualcosa di nuovo. E i Beatles lo erano. Probabilmente nel mondo di oggi non arriverebbero neanche a fare un provino, perché avevano caratteristiche che erano esattamente tutto il contrario di quello che andava di moda. Andava di moda essere incazzati e loro erano sempre sorridenti; andavano di moda i capelli impomatati e tirati all’indietro e loro ce li avevano shampati e con la frangetta; andava di moda il bluson noir e loro andavano vestiti tutti acchittati; andava di moda il rock duro e loro avevano impasti molto più dolci. Insomma sembrava che avessero preso il catalogo di quello che andava di moda, dicendo: noi adesso facciamo tutto il contrario. Oggi non sarebbe possibile. Anche perché non esiste più la cultura dell’inedito, del mai sentito, del mai visto, che era prevalente in quel tempo. Poi c’è un’altra differenza importante…
Spiegacela…
Nel bellissimo film documentario che ha fatto Scorsese su Bob Dylan, No Direction Home, a un certo punto c’è un artista molto amico di Dylan, che dice: «Quelli erano tempi più semplici. Le arti non erano condizionate dai dollari». Questa è una chiave importante di comprensione, perché se i soldi diventano la causa di tutto, la molla che muove tutto, alla fine produci soldi, non produci altro; restituisci quello di cui ti nutri. Ai Beatles nel 1967 gli venne fatta un’offerta per tornare a fare un concerto, gli offrirono un milione di dollari e loro rifiutarono, non ne avevano voglia. Un milione di dollari nel ’67 erano soldi veri. E dirò di più, ossia che tutta la loro vicenda, contrariamente a quanto accaduto successivamente, può essere anche letta come uno sviluppo del famoso binomio «avere ed essere». Nel senso che loro ottengono talmente tanto e talmente rapidamente – tanti quattrini in un tempo brevissimo – che a un certo punto si guardano in faccia e si chiedono: ma a noi che ce ne importa? Ringo Starr, che passa per essere il più scemo dei Beatles ma non lo era affatto, a proposito delle sue numerosissime proprietà immobiliari e mobiliari commenta: «Che se ne farà uno come me di tutta questa roba?». Il suo sogno è quello di aprire un negozio di parrucchiere. Allora esaurita la fase dell’accumulazione di beni materiali, perché tutto quello che il mondo materiale poteva dare lo avevano già ottenuto, scatta l’«essere».
E cioè?
Vogliono la conoscenza. Grazie anche al fatto di non aver avuto, per loro fortuna, un’educazione accademica, attingono alla conoscenza in maniera splendidamente disordinata e casuale. George Harrison sente un sitar e decide: suoniamo il sitar. Paul McCartney sente in un concerto di Bach la tromba sinfonica e dice bello questo suono, lo possiamo mettere in Penny Lane? E in Penny Lane c’è la tromba sinfonica. Accedono al mondo del sapere in maniera completamente disinibita e spontanea, e così danno vita a un linguaggio che è di straordinaria ricchezza, perché comprende elementi di qualsiasi cosa. L’idea stessa di un linguaggio così torrenziale è esistita solo nel jazz, ma era un progresso che spesso si sviluppava in decenni, o in quinquenni come minimo. Loro in pochi anni hanno fatto il botto, con loro le possibilità musicali si sono estese all’infinito e si sono arricchite in una maniera impensabile. Prendono dal jazz, da John Cage, dalla musica contemporanea, certamente dal rock and roll, il vaudeville, tutte le culture del passato, del resto del mondo. Prendono ed è tutto buono. È la cultura, è il grande miracolo dei saperi condivisi. Nel ’62 fanno ancora canzoni da teenager – And I love her, Please please me, Love me do – loro sono i bardi di quel linguaggio lì. Poi, più o meno da Rabben Soul, le cose cominciano a diventare più complicate. Yesterday, una canzone per quartetto d’archi e voci, quando mai si era sentita?
A proposito dell’eterna diatriba tra Beatles e Rolling Stones, ad ascoltarli adesso, ferma restando l’immortalità dei Beatles, la mia impressione è che i Rolling Stones siano più contemporanei: cioè uno sviso di Keith Richards, oggi, ti prende di più. Qual è il tuo giudizio?
I Rolling Stones sono rimasti dentro un linguaggio codificato che è quello del rock and roll. L’unico disco in cui se ne discostano è Their Satanic Majesties Request, ma sostanzialmente sono rimasti sempre una band di rock e di rhythm and blues. I Beatles sono andati su un altro pianeta e per la loro creatività dovrebbero sembrare anche più moderni. Ma siccome il moderno oggi è antico… Pensa a Good Night, il pezzo cagiano di Lennon sul doppio album bianco, ai pezzi suonati col nastro che va all’incontrario…
E poi? Quando si sono sciolti?
Quando si sono sciolti negli anni Settanta, è finita un’epoca. Dei Seventies ci godiamo le tracce, le implicazioni, le conseguenze, i cascami ma il gioco è finito. The dream is over, come dice John Lennon.