Un nuovo intervento sui regolamenti teatrali
Contro i giovanilisti
Il decreto "Valore Cultura" ha molte lacune: troppa burocrazia non favorirà davvero i giovani! E passerà un colpo di spugna sull'innovazione, la produzione privata e i non assistiti...
Con il decreto Valore Cultura e i decreti attuativi, dal 2015 verrà ridisegnato profondamente il sistema di finanziamento del teatro italiano. In questi giorni circola la seconda bozza dei decreti che illustra i nuovi parametri che ridisegneranno l’assetto di teatri, imprese di produzione, circuiti, organismi privati di ospitalità, Teatri di tradizione etc. La campagna di comunicazione che ha accompagnato la presentazione di questa riforma non è stata priva di sensazionalistici proclami: basta con il teatro dei padroni, largo ai giovani! Si sono, dunque, assecondate le esigenze rivendicate da una parte della platea di addetti ai lavori? Come dire, la riforma è stata presentata come la migliore delle possibili, capace di rivoluzionare il sistema per rendere giustizia ai giovani o ai grandi talenti che negli ultimi vent’anni sembravano non albergare nei teatri né istituzionali né tantomeno finanziati. Sarà vero?
Incrociando parametri e intenzioni, si viene presi dallo sconforto. Partiamo dalle intenzioni o, sarebbe forse meglio dire, dalle esigenze che la platea rivendicava: spazio ai giovani, luoghi di creazione, sostegno alla creatività, nuovi talenti. Insomma, le rivendicazioni di sempre (ma già nei precedenti parametri molti obblighi erano previsti) che si generano in un sistema bloccato da oltre vent’anni. Grande assente, il tema del pubblico e della sua formazione, neo del sistema autoreferenziale che non ha saputo innovarsi né rinnovare un rapporto con il suo interlocutore privilegiato: il pubblico, per l’appunto. Ma tralasciando questa fondamentale tematica ancora non risolta, decodifichiamo i numeri, chiave di volta del nuovo teatro.
Azzerato il sistema della stabilità, muovendosi sull’ambiguità del termine stesso di Stabile, si è dunque deciso di fare di tutta un’erba un fascio e di cancellare con un tratto di penna sia la Stabilità Pubblica (il grande buco nero del sistema teatrale) che quella Privata e d’Innovazione, perpetuando l’ambiguità e la semplificazione che vedeva equiparati i teatri pubblici ai teatri privati a vocazione pubblica. I teatri pubblici, i cosiddetti Stabili, infatti sono associazioni di enti pubblici che in qualche modo, come le società partecipate municipalizzate o regionali, hanno generato costi moltiplicando poltrone e stipendi non investendo nella creazione se non attraverso la autoreferenzialità dei suoi direttori-registi. Ma adesso non c’è tempo di distinguere e riflettere, è il tempo delle generalizzazioni! Via tutti! Via anche il settore di mezzo, quello privato a vocazione pubblica per intenderci, che ha dovuto e voluto fare sana amministrazione sapendo gestire risorse notevolmente inferiori rispetto al Pubblico, senza il paracadute della partecipazione degli enti locali. Certo, anche l’innovazione non è stata scevra da colpe e inadeguatezze, non tutta per la verità. Ci sono alcuni centri d’innovazione che muovendosi fuori dai mercati (televisivo e della cosiddetta ricerca à la page) hanno creato un’identità e un pubblico, molto invidiato. Ed anziché entrare nel merito delle gestioni e delle eccellenze, si premia il Teatro Pubblico e si trasforma in partecipato quel Privato che riesce a fare il salto in alto, consegnando praticamente il controllo alla politica che deciderà CdA, e direzioni condizionando la gestione della grossissima fetta di finanziamento. Quei pochi “Teatri Nazionali” con le loro 10.000 giornate lavorative e 240 recitative di fatto assorbiranno il mercato delle città di riferimento senza essere obbligati, ad esempio, a fare rete con i privati o gli ex-stabili d’innovazione.
I giovani e i piccoli teatri dovranno elemosinare spazi e considerazione, e i Nazionali non saranno catalizzatori di sinergie se non per convenienze politiche o salottiere. Nessun sistema virtuoso capace di sostenere la nuova creatività (i minimi riservati al settore sono irrisori e comunque calibrati per i grandi numeri che inevitabilmente si piegheranno alle esigenze del mercato commerciale), i Teatri d’Interesse Pubblico faranno altrettanto, anch’essi (parrebbe, vista la poca chiarezza delle slide) superando le distinzioni di genere ed etichette (e questo è un bene) dovranno inseguire le 6000 giornate divenendo così, loro malgrado, carrozzoni che lasceranno qua e la qualche briciola per le riserve indiane (allestimento/ospitalità di almeno 2 spettacoli di ricerca e innovazione, avranno un’etichetta certificata?). Si spinge l’acceleratore verso l’accentramento in poche mani di grossissime risorse. Mi pare che ci sia una grande discrepanza tra le intenzioni e la realtà. Si è disegnato un sistema che nega la pluralità e la diffusione capillare e organica dell’intervento pubblico nel settore del Spettacolo dal Vivo sul territorio.
L’Italia non è la Francia, e lo stesso sistema francese è totalmente diverso da quello che si disegnerà con questa riforma. È grave, anzi, che la si spacci come una riforma francese. Questo è di fatto un taglio che butta a mare il settore indipendente, come ad esempio dell’innovazione e dell’infanzia e la gioventù, assoggettando alla politica quei pochi Teatri che, divenuti grossi enti, avranno saputo muoversi nella paludosa area della politica. Poi vorrei spendere una parola per i giovani, gli under30, che avranno una via di accesso “privilegiata”. Sì, “parametri” più docili in entrata, “appena” 500 giornate, che non si sa bene come potranno essere pagate da giovanissime compagnie (si contano sulla punta delle dita gli under30!). Nulla invece per quella fascia di mezzo dai 30 ai 45 anni e oltre che rappresenta lo zoccolo duro di lavoratori dello spettacolo precari che adesso dovranno fare la fila dietro la porta dei nuovi principi del teatro italiano: i direttori dei Teatri Nazionali e d’Interesse Pubblico.
E le compagnie, alias imprese di produzione? Se sei di “cassetta” puoi stare tranquillo, se fai ricerca, innovazione o teatro d’arte, vista la totale mancanza di un progetto sulla formazione del pubblico e la distribuzione, puoi ritornare nel sottosuolo tra i tanti demoni e i futuri desaparecidos del sistema Italia.
E se invece – la butto lì come grande provocazione – facessimo l’inverso? Ovvero se privatizzassimo tutti i teatri Pubblici, obbligandone direttori e presidenti ad assumersi pienamente responsabilità civili, penali e amministrative, agitando lo spauracchio del pareggio di bilancio? Forse potremmo privilegiare, così, le “residenze” (al netto di patti tra enti locali, con la politica sempre in agguato!) e i network di piccoli spazi distribuiti capillarmente sul variegato territorio dello stivale. Ma questa sì che sarebbe una vera rivoluzione molto poco italiana…
L’autore lavora come regista al Teatro Libero di Palermo
(nella foto: il Teatro del Mondo di Aldo Rossi)