Fa male lo sport
Basket da riscatto
Brindisi è in cima alla classifica. Non è un caso, ma una storia lunga. La storia di tutte quelle piccole città che nello sport cercano una via d'uscita alle proprie difficoltà
Che ci fa Brindisi in mezzo a Milano e Cantù in cima al basket italiano? Chi sono questi cafoni tra l’aristocrazia dei canestri? Si è davvero capovolto il mondo dello sport, anche quello del basket, dunque? Buttate un occhio alle gerarchie di questa Lega A, vi accorgerete così che ci sono altre piccole realtà, oltre il club salentino, che fanno bella figura: Sassari, ormai da una decina d’anni nella crema dei palasport, poi Avellino, Cremona e Montegranaro. Convivono con “piazze” tradizionalmente significative della palla a spicchi come Milano appunto, Reggio Emilia, Varese, Bologna, Pesaro, Siena, Caserta, Roma. Il racconto dei giganti di casa nostra è sempre stato questo: le grandi piazze insidiate dalle piccole, l’eterna storia di David contro Golia. David qualche fiondata l’ha tirata nel canestro.
I brindisini amano dire, esagerando un po’, che nella loro città si mangia da sempre pane e basket. Certo è che quando dalla tv in bianco e nero Aldo Giordani parlava agli italiani – come fosse il maestro Manzi – di questo sport molto yankee, la Libertas Brindisi faceva capolino nel salotto buono per le sue imprese, il bel vivaio e per un personaggio indimenticabile: Elio Pentassuglia (nella foto), detto Big Elio per via della mole, un fine intenditore dei parquet ed un coach che sapeva cavare sangue da una rapa. Un meridionale che dava lezione di basket in un mondo molto settentrionale: la stessa Ignis Partenope, negli anni Sessanta, non era altro che una succursale dell’Ignis Varese (il cummenda Borghi aveva allargato l’azienda di elettrodomestici a Napoli). Big Elio ha allenato Brindisi per molti anni, poi se ne andò a Napoli, a Rieti (lì vinse, anno 1980, una Coppa Korac, che era un po’ come la vecchia Coppa Uefa del calcio), e a Varese. Ha allevato fior di giocatori, due nomi su tutti: Brunamonti e Cordella. Personaggio allegro e ironico, Pentassuglia non amava molto i giornalisti. Nei fatterelli del basket italico si racconta di quando stava a Napoli e mal digeriva le critiche di un noto giornalista sportivo del Mattino, Lello Barbuto. Il quale rimproverava al coach brindisino di non far tirare mai i tiri liberi nei minuti finali delle partite (allora si poteva rinunciare a tirare e tenere la palla per far scorrere i minuti). Successe che in una partita della Fag Partenope, avendo a disposizione i due tiri liberi, Pentassuglia fermò il gioco e chiese provocatoriamente al giornalista che era in tribuna stampa che cosa gli consigliasse di fare: se tirare o meno quei due liberi: «Dai, decidi…», gli urlò. Gli hanno dedicato il palasport dove adesso gioca l’Enel Brindisi, perché Big Elio morì in un tragico incidente stradale nel 1988: aveva soltanto 56 anni.
Pane e basket, dunque, nella città salentina dove in edicola potete trovare anche un mensile dedicato alla palla a spicchi, Trezerocinque il titolo, e tv e siti non parlano d’altro. Il calcio viene dopo. Brindisi si è cibata anche a di pane secco e acqua invece che rosette e pagnucola, la pagnotta locale, fragranti di forno: i debiti, le cancellazioni, i campionati dilettanteschi. Poi la resurrezione una decina di anni fa con la New Basket Brindisi. Mai però era arrivata a fare il fenomeno, vale a dire a comandare un campionato – arrivato adesso a metà strada – battendo di recente Siena, Sassari, Roma e perdendo con Milano. Ritrovandosi così nei titoloni di testa in compagnia del sostantivo “favola”, la favola di Brindisi. Quella che non è venuta mai meno, in tutti questi anni, è però la passione della gente. Come a Sassari, ad esempio. Come in tanti altri luoghi della piccola provincia baskettara. Piccolo è bello, anche senza scialacquare. Perlomeno è competitivo. E se Milano, unica, investe enormi capitali con Armani dietro e si compra mezza Siena perché il Monte Paschi non c’è più, Cantù taglia i costi ma allestisce un team che tiene botta. Sassari vive sullo slancio dei suoi tifosi e gode di uno sponsor, il Banco di Sardegna, che preferisce investire lì più che sul calcio.
La ciurma di Brindisi è capitanata da un coach esperto, Piero Bucchi, a lungo a Milano, ed è composta da un gruppetto di americani non male: Delroy James, nato in Guyana ma svezzato nei college Usa; Jerome Dyson, il direttore della squadra in campo; soprattutto Folarin Campbell, una guardia che ha girato mezzo mondo. A mettere su questo giocattolo sono stati un gruppo di imprenditori locali capitanati ora da Fernando Marino, che vende macchine BMW. Marino è il presidente della società, probabilmente non ce la farebbe con i suoi guadagni a pagare un campionato di Lega A e gli ingaggi ai giocatori. Ma ha alle spalle il colosso, il gigante silenzioso e ingombrante, cioè l’Enel. Che mette il suo marchio sulle maglie e completa l’etichetta della squadra, primo prestigioso sponsor (in queste settimane è arrivato anche il secondo marchio, la Kia, la casa automobilistica coreana, ancora auto dunque: «The power of surprise», uno slogan che sembra pensato per questa squadra). C’è però chi rimprovera a Marino i conti non in ordine. Lui si difende attaccando: «Certo che questa società ha delle perdite, che credete? Se vado a vedere i bilanci delle altre squadre, c’è da mettersi le mani nei capelli. Il nostro bilancio è in difficoltà perché siamo in una realtà difficile con il Comune che non ha mantenuto le promesse di ampliamento del Palasport. Ci aveva promesso di far entrare 5500 persone con i lavori opportuni in attesa di un nuovo palazzetto. Invece niente. E pensare che ho dovuto aumentare anche il costo degli abbonamenti. Certi investimenti sono stati fatti anche in vista di maggiori incassi. Comunque le perdite sono state ripianate dai soci. Noi non vogliamo essere la favola di una sola stagione». Al PalaPentassuglia entrano in 3500 e stanno strettissimi.
Perché poi di favole, questa città, ne ha poche da raccontare. Scossa due anni fa da quella brutta storia della bomba al GPL davanti all’istituto professionale, una ragazza morta, qualche mese fa Brindisi ha dato uno sguardo alla classifica del Sole24Ore sulla qualità delle vita nelle province del Belpaese: è restata nei bassifondi della graduatoria, alla casella 92 su 107. Ad essere sinceri è andata anche meglio rispetto agli anni passati con la soddisfazione di guardare dall’alto in basso città come Napoli, ultima, Reggio Calabria, Salerno, Palermo, Taranto… Già Taranto. L’Ilva di Brindisi si chiama Centrale Enel di carbone di Cerano, una presenza ingombrante e silenziosa. Come lo sponsor sulle maglie bianco e azzurre dei giganti sotto canestro. Per non parlare del Petrolchimico. Ci sono degli studi seri, pubblicati anche in riviste scientifiche internazionali, in cui si sostiene, ad esempio, come ha scritto Il Fatto Quotidiano nel gennaio 2013, che «su 8.503 nuovi nati di madri residenti a Brindisi, 194 hanno avuto anomalie congenite. Una media di 228,2 ogni 10mila abitanti a fronte di quella europea di 165,5». Da notare che è dal 1986 che Brindisi è considerata una città ad alto rischio ambientale. Il problema è, ha denunciato Simone Salvemini nel Giorno che verrà, un docufilm da lui realizzato: «Che la preoccupazione non è evidente, la comunità non si ribella, le manifestazioni di dissenso sono limitate ai movimenti». Giusto qualche giorno fa in Consiglio comunale, tra qualche timida protesta sui “ricatti occupazionali”, hanno votato ancora un documento in cui si chiede all’Enel di abbattere le emissioni di sostanze nocive dello stabilimento. Ma intanto il sindaco di centrosinistra Mimmo Consales ha chiesto al gigante energetico di costruire il nuovo palazzetto… Forza Brindisi.