Giornata della Memoria/4
Ballare in lager
Bompiani ha appena pubblicato un libro singolare. Quello in cui Paul Glaser racconta l'assurda e drammatica esperienza della zia che si salvò da Auschwitz insegnando la danza ai nazisti
Prima di rivelarvi di che libro stiamo parlando, riportiamo alcune righe che si trovano a pagina 170: «Facevamo la spesa delle erbe quasi tutti i giorni…nelle vicinanze del fiume. Era meraviglioso potersi sedere sulle rive e farsi una nuotata. Era come stare in vacanza… quasi tutte avevamo il “fidanzato”… chiacchieravamo molto per ammazzare il tempo. Facevamo anche musica…».Insomma, un quadro sereno, quasi idilliaco. Poco più avanti: «C’era un cortile accanto al nostro blocco, con un muro su un lato, dove i prigionieri venivano fucilati quotidianamente… qualche vittima supplicava, ma perlopiù stavano in silenzio, il ché era peggio».
Una domanda ci stringe immediatamente la gola: chi scrive è impazzito? Oppure inventa delle cose intrecciandole arbitrariamente con altre? No: questo è il resoconto di Rosie Glaser, ebrea olandese. Un diario indiretto, ma fedele ai fatti, scritto dal nipote Paul Glaser, autore di Ballando ad Auschwitz (Bompiani, 301 pagine, 18 euro). I capitoli sull’esperienza – davvero singolare in questo caso – di 18 mesi nel campo di concentramento nazista più famoso nella galassia dell’orrore hitleriano si alternano con quelli in cui l’autore, che si è sempre creduto cattolico, ricostruisce, con uno stupore crescente, le origini della sua famiglia, scoprendo di appartenere al ceppo ebraico. E si imbatte, dopo numerose e sistematiche ricerche, nella figura di zia Rosie, ballerina, cantante, fondatrice di scuole di ballo. Alla fine le si presenta davanti. Sì, finalmente vede una donna con i capelli bianchi, da tempo residente in Svezia. La donna che non era matta, ma soltanto dotata di un’eccezionale forza vitale, impregnata di ottimismo. Un’europea del nord che è stata nella bolgia nazista, capace di parlare (sapeva molte lingue) con soldati e ufficiali, donne della sua stessa “baracca” e kapò. Rosie, disinibita con gli uomini, sempre alla ricerca di uomini e musica, è riuscita a mantenersi persona in un campo dove, come in tutti, dominava la spersonalizzazione, la riduzione dell’uomo a numero.
Spesso si dice che la violenza e le torture naziste avevano qualcosa che rimandava al sadismo raffinato. In parte Rosie smonta un aspetto della Shoa che rischia di confinare con la quasi assoluzione, o meglio con la spiegazione di ciò che avveniva. Invece ciò che avveniva era solo prepotenza grossolana, residui di angoscia tramutati nell’impensabile – dal punto di vista razionale – azzeramento di milioni di persone, colpevoli di appartenere alla comunità ebraica, a quella dei rom, a quella degli omosessuali e a quella degli oppositori politicamente irreducibili.
Rosie, usando sempre la contrattazione verbale e quella dose di astuzia che ha permesso ad alcuni di diventare dei sopravvissuti, passa dal servizio di pulizie delle camere a gas a una fabbrica di armi. Il fatto di saper cantare e ballare diventa notizia e quasi per caso si presenta nel circolo dove i tedeschi con la divisa della morte si ubriacano e canticchiano arcinote canzonette. Canta anche lei, intrattenendoli. E quelli, sbracati, volgari, ubriachi, ascoltano i motivi che Rosie, mentendo, dice siano le note e le parole in versi più in voga nella Germania di quei mesi. È un bluff. E la plebaglia nazista, poco importa il grado, ci crede. Lei ovviamente evita il jazz o lo swing, ben sapendo che i tedeschi avevano bollato questi generi musicali anglo-americani come esempi di “deaerazione”. Insegna ai nazisti, che cominciano ad avvertire il crollo del Terzo Reich e s’allarmano udendo in lontananza il suono cupo delle armi russe, il galateo del ballerino. Come se fosse ancora la responsabile di una scuola di danza, addirittura pretende che quei contadinacci, non troppo puliti e con l’alito pesante, ma resi assurdamente sicuri dalla divisa SS, facciano un primo inchino quando desiderano invitare una donna a danzare e un secondo, di ringraziamento, a ballo terminato.
Rosie, che sogna sempre l’amore, la vicinanza fisica, la tenerezza, ha occasione di fare l’amore con uno di quei soldati, forse il più lucido a proposito dell’imminente sfascio dell’impero nazista. Lo consola, accarezza i suoi capelli intuendo la sua profonda malinconia di marito lontano dalla moglie, già incredulo e timoroso al pensiero di come comportarsi davanti agli uomini dell’armata russa. Che sono a pochi chilometri, effettivamente. Proprio per questa ragione i nazisti smantellano il campo di concentramento, pur lasciando, inevitabilmente le tracce dello sterminio di massa. I detenuti, quelli che ce la fanno, sono trasferiti verso il confine danese. Viaggiano su vagoni ferroviari scoperti dopo massacranti marce a piedi. Rosie va in un campo di raccolta e alla fine, testardamente, riesce a unirsi agli svedesi tramite la Croce rossa di Stoccolma. Ha un acre risentimento verso i Paesi Bassi, li accusa di acquiescenza verso i tedeschi, di tradimento, di sconcertante passività in cambio di benessere economico e ripresa industriale, a tutto vantaggio, ovviamente, di quella borghesia che è sempre pronta a inchinarsi all’invasore. Sì, la borghesia che consente così facilmente l’allargarsi del cancro della dittatura.
Rosie non dimentica il marito e l’amante, entrambi olandesi, e li denuncerà alle autorità di Amsterdam. Rosie, in mezzo agli svedesi, balla il Bolero: «Fu la mia danza di liberazione. Ero già libera da un paio di settimane, ma lo divenni davvero quella sera. Penso che per molte delle donne presenti sia stato lo stesso». L’autore del libro riceve la notizia della morte della zia. Viveva col marito nei sobborghi di Goteborg. Paul spargerà in acqua le ceneri di una zia che mai immaginava fosse stata una singolarissima eroina ebrea, coraggiosa e anticonformista. Ma soprattutto determinata a sopravvivere.