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L’ultimo Montalbán
Feltrinelli manda in libreria l'ultima inchiesta di Pepe Carvalho. Poi, tra poesia e fiaba ci sono i versi di Pierluigi Cappello e le storie in forma di nenia di Francesco Guccini
Inedito. Con questo libro, finora mai uscito, di Manuel Vazquez Montalbán, pubblicato dalla Feltrinelli, dobbiamo purtroppo dire addio al piacere di leggere uno dei narratori più singolari e prolifici della Spagna di oggi. S’intitola Luis Roldàn né vivo né morto (123 pagine, 10 euro). Montalban è morto d’infarto a Singapore il 18 ottobre 2003. Qualcuno (ma credo siano in pochi) lo confonde ancora con Montalbano, il commissario di polizia creato da Andrea Camilleri (Sellerio): in realtà lo scrittore siciliano, amico dello spagnolo, non ha mai fatto mistero di essersi ispirato, in quanto al nome dello “sbirro”: una forma di omaggio. Compare quindi per l’ultima volta il detective barcellonese Pepe Carvalho, personaggio bizzarro tra le cui caratteristiche c’è quello di amare una prostituta (Charo) e di bruciare di tanto in tanto pagine e pagine della sua vasta biblioteca. Nella sua ultima prosa compaiono nell’ufficio di Carvahlo tre uomini che lo incaricano di ritrovare il misterioso Luis Roldàn, ex capo della Guardia Civil e delegato del governo del Psoe in Navarra. Sono spariti dei soldi.
Con l’aiuto del suo fidato collaboratore Biscuter, minuzioso conoscitore del ventre oscuro di Barcellona, il detective si butta a capofitto in quello che rimane dell’inquietante dedalo di viuzze della città, dove puoi incontrare tutto e tutti. Vicenda con alto tasso di suspence, ma condita con riferimenti continui alla politica, presente e passata, e alle sue ombre, destinate a durare ancora per molto tempo. La politica era nel sangue di Montalbàn. Figlio unico di una sarta e di un militante socialista della Catalogna, nel ’61 diventò membro del Comitato Centrale. Scontò tre anni di detenzione, dal 1962, per aver partecipato alla resistenza contro il dittatore Franco (cui dedicherà poi un libro). Sarà in cella che Montalbàn inizierà a scrivere. Prima un saggio, cui seguiranno romanzi, testi a carattere biografico, oltre a poesie e a ricette di cucina (il Suo Carvahlo è un raffinato ghiottone).
Oltre il dolore. Senza alcun dubbio Pierluigi Cappello è uno dei più interessanti poeti di oggi. Ma ingiustificatamente poco popolare. La poesia conta purtroppo figure d’alto profilo sotto il cui balcone c’è poca gente. Con lucide e secche pagine di prosa (Questa libertà, Rizzoli, 172 pagine, 162 euro), Cappello, che ha trascorso molto tempo in ospedale, cerca (e ci riesce bene) di spiegare il “volo” della poesia. Un volo liberatorio, che lo stacca dall’immobilismo fisico. Basta una matita e un blocco di carta, racconta, e ti allontani verso terreni mentali di assoluta libertà, per recuperare anche i ricordi più rinfrancanti. Questo suo libro contiene «parole senza corpo e parole col corpo». E dice ancora: «Libertà è una parola senza corpo. Come l’anima». Poi rammenta l’approccio con le grandi letture. «Lettura come ossessione», come il confondersi con panorami infiniti, con personaggi-amici. E ancora, accennando senza falso pudore ai suoi guai fisici: «La scrittura mi ha torto il collo e ha costretto il mio sguardo nei luoghi felici dell’infanzia o a muovere i miei passi dentro dolori intensi che pensavo di avere rimosso». La sua marginalità esistenziale deriva anche dal fatto che è «uomo di montagna», nato a Gemona, nel Friuli, dove nel 1976 avvenne il terribile sisma. Nelle sue pagine nessuna parola risulta superflua, ogni vocabolo è scelto dopo molto riflettere, mai buttato lì. Del resto lo stesso poeta narra la sua “pratica” artistica: la ricerca di «un dettato lineare, senza scorie letterarie». Cappello passa disinvoltamente dalla prima alla terza persona. E qui affiora chiaramente il rapporto con proprio sfortunato corpo. Un corpo vissuto come peso a volte sopportabile a volte interamente estraneo. Rinnova, con fatica e volontà, la propria esistenza. «Io faccio nuove tutte le cose», com’è scritto nella premessa dell’Apocalisse.
Le fiabe. Quest’uomo eclettico, mite e profondo, Francesco Guccini, è nato a Modena (che chiama, in una sua canzone Piccola città) è un po’ tutto, essendo stato divorato da svariatissimi interessi e da molte passioni. È un musicista (frequentò la stessa scuola di Luciano Pavarotti), è uno scrittore, è un cantautore (indimenticabile la sua voce roca e profonda, con l’andamento talvolta nenioso del racconto o della fiaba civile). Ha pubblicato oltre venti album di canzoni. Tra le sue occupazioni figurano anche quelle attinenti alle colonne sonore, ai fumetti, alla glottologia, alla dialettologia, alla traduzione di testi di teatro. Fino alla metà degli anni Ottanta ha insegnato lingua italiana al Dickinson College, scuola off-campus, a Bologna e all’ Università della Pennsylvania Guccini suona la chitarra folk, e la maggior parte delle musiche da lui composte ha come base questo strumento. Mondadori ha appena mandato in libreria Culodritto e altre canzoni (61 pagine, 9,90 pagine). Il titolo, come spiega lo stesso autore, è ispirato da una bambina «che possedeva sì moltissime cose che allora io, alla sua età, non avevo, ma a cui erano precluse occasioni e situazioni – più semplici ma più fascinose – che nel corso degli anni erano andate perdute». Poesie semplici, che vanno dritte alla mente e al cuore. Anche quelle “paurose” come Il vecchio e il bambino, ove l’immaginazione si sposta sul tema del terrore di un eventuale disastro nucleare. Il vecchio racconta cose e situazioni ormai antiche, e il bimbo, che non ha mai visto quel mondo, crede che siano favole. E ne chiede altre. Tante altre.