A proposito di “Finn’s Hotel”
L’orecchio di Joyce
Ottavio Fatica, traducendo gli inediti dello scrittore irlandese punta sulla sua capacità di ascoltare la lingua. Proprio come Luigi Malerba, che inventava "neologissimi" unendo suoni, allusioni e significati
Ricevo per caso lo stesso giorno due piccoli libri preziosi. I neologissimi di Luigi Malerba, e l’inedito fin qui Finn’s Hotel di James Joyce. Non so quale leggere per primo perché mi attirano molto entrambi, e mi butto allora subito a guardare le introduzioni, che sono di per sé entusiasmanti. Eh, già, ma prima devo spiegarvi di che si tratta, perché non è semplice.
I neologissimi sono stati tirati in copie numerate fino a 150. Io ho la fortuna di avere il 118 e voi… arrangiatevi. Oppure correte a intasare il sito www.oplepo.it per richiedere in massa una ristampa un po’ più ampia di questo testo che riunisce un primo gruppo di “voci” uscite su Linus nel 1978 e un altro, più breve, pubblicato sempre su rivista, Il Cavallo di Troia, nel 1981. Trattasi del raro Quaderno n.1 dell’Oplepo (Opificio della Letteratura Potenziale con sede a Napoli, piazza dei Martiri 30) che con la letteratura inventa e gioca, si diverte e ci diverte. Qui l’introduzione è firmata da un altro scrittore raro, Ermanno Cavazzoni, di quelli che non scrivono per vendere, ma per seguire una loro bislacca vocazione, sfrontatamente minoritaria. Avevo usato una pericolosa quantità di avverbi dalla desinenza in –mente, che lesta ho cancellato e sostituito per non dovermi giustificare con quelli dell’Oplepo, attenti indagatori degli usi e abusi linguistici: senz’altro il caso era dovuto al fatto che i neologissimi (a differenza dei loro parenti più noti: i neologismi) sono partoriti da cervelli intelligenti, spiritosi e audaci (laddove i neologismi, come ci spiega Cavazzoni possono essere chiamati persino “lingua neolatrina” per dirne tutta la possibile bruttezza…)
I neologissimi invece sono belli e, in particolare, «quando Malerba neologizza» dice ancora Cavazzoni «produce una gran contentezza in tutti noi» e ci rende ancor più doloroso, aggiungo, che se ne sia andato nel 2008, quando ancora doveva compiere ottantun anni e poteva continuare a neologizzare tanto e a produrre altri magnifici salti come il suo immortale Salto mortale che era un giallo che non era un giallo (come si vede mi sono prontamente adeguata allo spirito di questo librino nel tono e nello stile). È un gioco contagioso. Per esempio Malerba inventa l’«Andreotto», voce troppo lunga perché io possa qui trascriverla, vi basti l’avvertimento finale: «Da usare con qualche cautela al plurale». E che dire del «Luco» da declinare al passato e al futuro, e dello «Sbifo» che è «un ribelle di seconda mano» parente di un certo folletto medievale detto «sbiffone» (ma credo che sia inventato pure lui). «Trampellare» è «camminare saltellando» (ma certo, è evidente! Come mai non esisteva già?) per arrivare alla «scemiologia», ovvero: «la scienza generale degli scemi»…
Di neologismi a suo uso e consumo e a uso della letteratura planetaria fu pirotecnico inventore James Joyce, come tutti sanno, e come confermano nuove prove uscite fuori da dieci brevi e brevissimi racconti inediti, «favole concise e concentrate su momenti formativi della storia e del mito irlandesi». Il preludio vero (e finora sconosciuto) alle voci multi-modulate di Finnengans Wake spiega Danis Rose, studioso del corpus joyciano, nell’introduzione a Finn’s Hotel, 125 pagine, 13 euro, che l’editore Gallucci ha confezionato in un’elegantissima veste grafica, ma formato tascabile, senza rinunciare ai divertenti disegni dell’illustratore americano Casey Sorrow in un volumetto alla portata di tutti, mentre nella madrepatria è un esclusivo volumone per amatori.
Gallucci ha affidato la complicatissima resa in italiano a uno dei migliori traduttori, Ottavio Fatica, nonché conoscitore di Joyce e dei suoi agguati linguistici. Personalmente confesso che mi sono divertita di più a leggere la sua nota Giacomo Giacomo che i testi infernali qui raccolti. Perché da lui ho scoperto tante cose che non sapevo (assolutamente essenziali a capirci qualcosa – di Joyce intendo). Del resto non è sempre così con l’autore dell’Ulisse? Non lo si legge per entrare nel labirinto delle interpretazioni, delle dispute, delle controaffermazioni? Lo dice chiaro e tondo lo stesso Fatica: «L’immane apparato che gli hanno stretto intorno fa passare la voglia di affrontarlo anche solo come semplici, si fa per dire, tipici lettori». Ma dice anche (per spiegare perché abbia accettato di compiere l’impresa e insieme spiegando a noi lettori perché abbiamo l’obbligo, odiandolo o amandolo, di leggere Joyce): «Perché con pochissimi altri, e più di tutti gli altri, è il precipitato della soluzione modernista». E perché, pur raccontando niente altro che i fattacci suoi «era dotato di un orecchio unico, assoluto, di un senso del linguaggio come nessun altro, né prima né dopo, mai».
E se nulla avete letto fin qui del grande irlandese insopportabile, approfittate di questi racconti che vi daranno un’idea delle impennate linguistiche, delle associazioni impensabili (e pure lui le pensava) che era capace di imbandire. Avverte ancora Ottavio Fatica: «Beh, questo è Joyce, signori, uno scrittore che fa qualcosa che nessun altro scrittore sa fare o sa fare così bene con le parole e quel qualcosa è, più che in ogni altro scrittore, il testo stesso». Un «viaggio al termine dell’inglese» di cui un altro prefatore, Seamus Deane, offre qui una mappa assolutamente necessaria per avventurarsi.
Detto questo, e con le dovute cautele: avventuratevi, per quanto spavento vi faccia. Avventuratevi figli di un’epoca a cui la lingua sa solo spianare la strada del banale.