Intervista con Claudia Pandolfi
«Il gioco delle parole»
«Io mi affaccio sui paesaggi degli altri con un atteggiamento sincero. Ogni volta un viaggio»: incontro con l'attrice in scena a Roma, al Quirino, con "Parole incatenate”
Premio Serra d’Or alla migliore opera in lingua catalana, Paraules encadenades di Jordi Galceràn Ferrer debuttò nel 1995. Da allora è diventato un classico del genere “thriller compulsivo”. Fino all’8 gennaio lo portano in scena al Quirino di Roma il regista Luciano Melchionna, Pino Tierno, che ha curato la versione italiana, e i protagonisti del dramma: Francesco Montanari – il mito di Libano in Romanzo Criminale, tanto per mettere a fuoco – e Claudia Pandolfi, che è un’attrice italiana non-conforme, oltre che poco italiana. In due righe la trama, laddove sul palcoscenico si fronteggeranno un serial-killer e la sua vittima all’atto di scommettere vita e morte in un labirinto di detti e contraddetti, il destino di entrambi legato a un gioco dialettico estremo. La nostra esistenza non è qualcosa di simile?
«Fatti o parole»: ce la rappresentiamo spesso come un’alternativa secca… vale lo stesso per Claudia Pandolfi? «Parole incatenate è anche la storia di una specie di coppia – mi dice Claudia – forse la metafora di un’esperienza finale che conduce due esseri a dichiararsi guerra. Non so come la vedi tu ma per me è difficile non risultare esasperante quando credi di rivolgerti a un altro e invece stai davanti a uno specchio e ci sei solo tu ad ascoltarti…». Le dico che secondo me la sua prima differenza sta nell’essere rimasta indiscernibile, l’attrice dalla donna, quasi che l’abito di scena aderisse ai suoi giorni qualsiasi, magari trascorsi a difendere il proprio giardino, il figlio, le soste e le ripartenze, o quello che altri chiamano impegno civile e se la tirano un po’ troppo. Claudia Pandolfi i fatti e le parole li ha messi insieme su ogni set, come fosse casa sua. «E sta andando bene così, l’ho detto spesso che il mio mestiere ha avuto origini troppo inconsapevoli per essere costruito. Io cercavo un altro tipo di bellezza oltre alla mia, che tra l’altro non mi appariva e non mi pesava. La mia voleva essere un’esperienza estetica piena, quasi traboccante ma non rovinosa, quello no. Io mi affaccio sui paesaggi degli altri con un atteggiamento sincero. Ogni volta un viaggio. Poi però torno, non mi perdo mai completamente, lascio tracce e ritrovo sempre la strada mia».
Può darsi che una frase mi sia sfuggita, o che me la sia immaginata, il fatto è che la voce di Gabriele ha squillato forte e allora la mamma gli ha detto: Ma come? Non c’eravamo promessi che mi facevi dare l’intervista e poi avremmo giocato? Sette anni. Per gli steineriani sarebbe la fine del primo ciclo della vita, per Gabriele è ancora Claudia che gli racconta favole a buon fine, che recita per lui, che lo stringe a sé durante una giornata di pausa. «Mi chiede cosa vuole la gente da me, cosa combino al lavoro, come la penso… Per un bambino le parole e i fatti sono pressoché identici. Perciò tutto gli va spiegato nel modo migliore. Grazie a lui ho imparato a camminare sul filo della verità. Entrare negli occhi di un bimbo è una meraviglia, e lui li apre così bene!»
Ora che Gabriele non ci sta ascoltando, torniamo a pensare al gioco delle Parole incatenate, alle donne e ai brutti ricordi della cronaca nera. «Che ci sia un’emergenza è molto probabile. Si aggira una figura di uomo primitivo, di cui sappiamo poco al di là della violenza che mette in campo». Io che non ho alcun genere da difendere farei un’ipotesi: il corpo femminile è troppo più ricco di quello maschile, e in questo abisso l’uomo scalcia, offende, colpisce. «Può anche darsi, ma il fatto è che ormai il nostro corpo se lo stanno litigando in troppi. Non sarà un mio problema ma mi sta a cuore lo stesso, perché quello di noi donne è un corpo universale».
E se tra i fatti e le parole della politica è meglio frapporre un pietoso silenzio, ciò non vale per l’amore. «No! Non è materia di scelte, quella. Io non riesco ad annullarmi nella concretezza e nella fattualità di un sentimento. La contraddizione mi apparirebbe troppo evidente. E poi io amo comunicare, verbalizzare quel che provo, sono cresciuta nel tempo in cui ancora ci si parlava, in cui attrarsi e distrarsi erano fatti uguali e contrari. Io ancora ascolto e parlo. Sono così».
Lei è così: fatti, parole e musica. Perché ora mi viene in mente la seconda differenza di Claudia Pandolfi, che è sempre riuscita a dissimulare l’immagine dei suoi personaggi grazie alla musica rock. Da un Virzì all’altro, dagli Snaporaz di Ovosodo ai Pluto de I più grandi di tutti corrono quindici anni di corse e di frenate. È una raccolta di suoni, un archivio della mente e del cuore che lei ha saputo proteggere dall’invadenza del mondo. C’è un caso a lei cugino, in Francia: quello di Julie Delpy. Le uniscono, Julie e Claudia, la musica e la libertà, che in genere volano a braccetto, come quando sei talmente felice che piangi e ridi insieme e non capisci se quella gioia sia nelle parole o nei fatti. Su questo Claudia e io eravamo proprio d’accordo: vallo a sapere se viene prima il pianto o il riso!