Cartolina dalla Siria
Frontiera di guerra
Viaggio al confine tra la Turchia e la regione di Aleppo dove fanatici, curiosi e disperati di mezzo mondo fanno pressione per entrare nelle zone di guerra. E, passato il checkpoint...
Ad Aleppo possono venderti anche la pelle di un asino. È un proverbio siriano che ripeto ritmicamente mentre decido di lasciare Hatay diretto a Kilis, piccolo centro assiso su di un altipiano: un balcone turco sul confine siriano. È un lungo viaggio di quasi 5 ore con i mezzi locali, peraltro abbastanza efficienti.
La guerra spesso la pensiamo come un’anomalia. Qualcosa che stravolge a tal punto l’animo della gente da cambiarne per sempre la natura. In parte è vero, e in parte no. La natura dei luoghi di confine è il commercio. Sarebbe meglio dire il traffico… Diciamo pure il contrabbando. I luoghi, la gente, le relazioni sono il sedimento di una storia comune, dove le abitudini non cambiano. Anche in guerra. A maggior ragione. Comunque sia, il commercio da queste parti è sempre florido, anche in mezzo alla miseria della guerra e delle esecuzioni sommarie. La lunga fila di tir sul versante turco testimonia la voglia e la necessità che la vita continui, nonostante tutto.
Mentre parlo col giovane responsabile del checkpoint di Bab el Salam sul versante siriano del confine, a meno di cinque minuti d’auto da Azaz, avamposto del nuovo qaedismo, continuano a passare camion, per lo più siriani. Vecchi mezzi carichi di animali e cibo per Aleppo, dove la popolazione non se la sta passando benissimo. «Gli hanno tolto anche la corrente«, spiega il giovane ufficiale del Free syrian army (Northern storm brigade). Fa riferimento agli ultimi scontri tra ribelli e truppe governative per l’aeroporto, a nord della citta, e per la centrale elettrica. Sono passati di mano diverse volte negli ultimi giorni. Un palleggiamento di fronte che colpisce prevalentemente la popolazione. Scatto qualche foto anche ai membri del Fsa, le manderò via email a questi ragazzi in armi, che su questo lato della frontiera sono la legge.
Dall’altra parte del confine c’è Kilis che immaginavo poco piu di un villaggio drogato dai soldi arrivati con gli aiuti delle organizzazioni internazionali per i profughi. Sede occulta dei cacciatori di armi chimiche della Cia rimasti disoccupati. Prefiguravo un agglomerato tipo Naquoura, nel Libano meridionale, alta Galilea: coprifuoco dopo il tramonto, pochi negozi, strade polverose… Mah, alle volte la fantasia di un giornalista rimane aggrappata ai racconti, che modellano e trasformano l’immaginazione, la rendono fragile e aperta allo stereotipo. Settantamila abitanti: Kilis è una cittadina moderna e all’apparenza ricca. Produce dell’uva buonissima ed è la porta per la Siria. Meglio: per Aleppo. Settantacinque chilometri da nord a sud per arrivare nella zona dell’aeroporto fino a pochi giorni fa contesa tra ribelli e truppe governative. Ora che il nuovo clima aperto dalla telefonata tra Barack Obama e il neopresidente iraniano Rohuani sembra prendere piede e spingere verso un composizione del conflitto siriano, sarebbe utile toccare con mano la realtà sul campo. I colleghi mi avevano già avvertito: ora il vero problema è la criminalità. Con uno Stato che non esiste e la libera circolazione delle armi, la feccia imperversa. E come non dargli ragione? A Cilvegozu ho dovuto divincolarmi da un taglieggiamento in piena regola, avvenuto lungo il corridoio che collega il checkpoint turco a quello siriano. Un antipasto di quello che potrebbe esserci oltre il confine (al Qaeda, dalle ultime notizie). Ciò che più sorprende è che anche nella piu remota provincia “ottomana” trovi il benessere che Istanbul ti ha abituato a vedere: lo vedi in forma incompleta, frammentata, ma ti colpisce comunque. Sarà perché lo sviluppo qui c’è stato veramente: già l’aeroporto di Hatay, stile Calatrava, è un biglietto da visita per la nuova Turchia. Anche in piena crisi politico-economica. E l’aeroporto è anche il cancello d’ingresso per centinaia di jihadisti occidentali. Che vengono smistati a Reyhanli, paese a pochi chilometri dal confine.
Ci sono alcune pensioni e delle abitazioni nella campagna circostante che fungono da basi prima del passaggio in Siria. Proprio a Reyhanli pochi mesi fa ci furono più di 50 morti per un attentato. Un messaggio inequivocabile ad Ankara che stava pensando di chiudere il confine. Confine aperto: linfa vitale per tutti i ribelli. Anche quelli con passaporto americano ed europeo – alcuni non musulmani – attratti dalla calamita siriana. Un misto di millenarismo in salsa islamica, unito alla voglia di essere testimoni attivi di quelli che molti musulmani considerano l’ultimo capitolo dell’umanità.
Aermageddon a parte, ad Hatay li puoi riconoscere per strada, i candidati stranieri alla jihad. I ricchi sauditi dall’abbigliamento sportivo, ma griffato, passeggiano sulla Istiklal caddesi, con i sacchetti pieni di abbigliamento e buffetteria militare. Materiale preso nei tanti negozi dove trovi di tutto per il perfetto miliziano. Se giri l’angolo sulla Sultan Selim e fai pochi metri trovi anche di meglio. In fondo al negozio ci sono collimatori e mirini telescopici per sniper. E se ti fermi a chiaccherare col proprietario mostrando qualche rudimento di eqipaggiamento militare e “buone” frequentazioni, scopri che anche comprare visori notturni e armi leggere non è poi così difficile. Hatay è una città di confine, dove il contrabbando è nel dna della gente.
Mi fermo a chiaccherare con un salafita, barba d’ordinanza, ma rossiccia, alto, magro, buon inglese ma non fluido. Non è turco, ma non mi dice subito delle sue origini, vuole capire se può fidarsi di un giornalista che dice di essere italiano, ma parla solo inglese e un arabo da scuola elementare. La Siria la conosce bene. Ayidin, lo chiameremo così, viene spesso in Turchia, a riprendere fiato. Ha problemi di salute, mi dice abbassando il tono della voce e grattandosi la barba, poco folta. Parla della Cecenia e di come in Siria la politica e i soldi abbiano rovinato l’anima della rivoluzione. Ma, assicura, il jihad non si può fermare a Teheran, né a Mosca né a Washington, ma a parte una certa retorica antioccidentale, non parla da fanatico estremista. Ha una pessima considerazione della politica o, meglio, di tutti i politici, anche di quelli che hanno preso in mano la bandiera dell’islam. Anche lui conferma che molte formazioni armate, in Siria, sono nate per difendere case, quartierie famiglie e non rispondono a nessuno, se non alle esigenze di sicurezza per cui sono nate. Si è fatto tardi, Ayidin riceve una telefonata, deve andare. Mi saluta con un sorriso. È bosniaco mi confessa, scomparendo verso l’uscita, con il dito indice rivolto in alto e una frase «one God»… «la ila illallah».
Le foto sono di Pierre Chiartano