"Il catalogo dei giocattoli»
Cronache dall’innocenza
Torna un bel libro di Sandra Petrignani dedicato al rapporto tra la crescita e il gioco. Quasi un'educazione sentimentale compiuta tra simboli e oggetti
Faccio finta di non conoscere Sandra Petrignani, che è senza alcun dubbio in cima agli scrittori oggi più essenziali, da leggere e rileggere. Mi diceva un narratore, tempo addietro: meglio non incontrare mai uno di noi, c’è il rischio delusione, strisciante o bruciante. Con Sandra non si ha delusione di sorta: la sua personalità è fotocopia della sua eleganza stilistica. Ma via, lo avete capito: Petrignani è stata a lungo mia collega in un settimanale nato per far da pitbull a protezione dell’onestà e dell’indignazione, col tempo diventato un cecchino sfrontato a favore di interessi feroci o ambiguamente suadenti Era un po’ stralunata, negli ultimi tempi in quell’hebdomadaire furbescamente patinato, spaesata come una donna che viene catapultata in uno scantinato dove il rumore rauco e perentorio degli “affair” andava progressivamente a coprire le voci più colte e neutralmente curiose. E anche quelle giornalisticamente più ingenue, che talvolta sono le migliori. Se n’è andata dal settimanale, come tanti “scomodi”, e ha continuato, con maggiore fervore e libertà, a dare il meglio di sé: scrivendo libri.
L’editrice Beat, nell’orbita del gruppo Neri Pozza, ha ripubblicato una delle sue opere più delicate e pungenti, assimilabile, verrebbe da dire, al titolo di uno dei suoi brevi capitoli: Il palombaro. Quello che oggi vien chiamato “sommozzatore” raschia il fondo, a costo di trovare solo un centimetro di verità. E quella rimane indelebile, e sale in superficie, scandalosamente. Il libro è una raccolta di brevissimi brani. S’intitola Il catalogo dei giocattoli (151 pagine, 9 euro). Apre, a guisa di prefazione, la recensione che fu fatta all’epoca della sua prima edizione (1988) da Giorgio Manganelli. Il quale annotò: «Un catalogo di giocattoli non è inevitabilmente un libro di struggenti rievocazioni infantili, come i pupi siciliani, le marionette, i giocattoli costituiscono un mondo alternativo, un cosmo meraviglioso e impossibile, un insieme di gesti, riti, di formule magiche…ci ritroviamo nel cuore di una tribù di presenze improbabili, maschere che ruotano, poligoni che fischiano, padelle canterine; ci troviamo a casa». Per Petrignani il gioco infantile è l’azzardo precoce della vita, il tentativo di un salto oltre la cosiddetta linea d’ombra, una fantasiosa, spesso utilmente paurosa, prova generale dell’esistenza, un rosario laico di intuizioni che rifiuta di ammuffire nel solaio della memoria. Manganelli accenna alla “maschera”. Diceva un grande del pensiero: «La maschera sono io». Già, senza scomodare il solito Pirandello.
Si parla nel libro di un argomento-oggetto ineludibile: la casa delle bambole. Quale bambina, ieri e nel plastificato presente, non ne è affascinata? A ber ragionare, puntualizza l’autrice, questo è un termine inesatto. E tramandato come tale. Pazienza per la comodità lessicale. Lo spiega Petrignani, facendo un’acuta sintesi del perché. Lì dentro, dove il miniaturizzato arredo riproduce, un po’ ossessivamente se vogliamo un ambiente del futuro, desiderato sicuro come fortezza domestica protettiva, compare una spensierata e fantasmagorica prova-generale di esistenza, una fotocopia ordinatissima a talvolta leziosa della quotidianità che si vorrebbe: domani, o per sempre. Ma tra quelle pareti e tra quegli arredi di precisione maniacale la bambola non è. Lì semmai c’è assenza, c’è l’aspettativa di una nuova folla familiar-amichevole, quindi possibile scenario di privatissimi fantasmi. La bambina, di dimensioni sproporzionate rispetto alla casetta, la guarda dall’altro, come un Gulliver che inciampa in oggetti ultrapiccoli. Gulliver è sbadato e miope, rimedia con un intuito delicato, con l’immaginazione.
«Non è un gioco – avverte l’autrice – è semmai una indagine». Compiuta col fiato sospeso perché non conosce i contorni degli abitanti. Si misura con un vuoto. Con un silenzio «Se gioco è, consiste proprio nel rischio dell’intrusione, nell’emozione che dà la violazione». Se un tempo la casa della bambola vantava la sua sicurezza strutturale attraverso il legno, così solido e caldo simbolo «di ritmi lenti e cose durevoli», oggi la struttura è di plastica. Facilmente smontabile. Con pezzi «destinati a disperdersi».
Immancabile l’orsacchiotto. Lo si apprezza già in culla, forse. «Gli occhi degli orsi sono affascinanti» scrive Petrignani. «Tristi e rotondi, suggeriscono fedeltà, arrendevolezza… l’orso è goffo e passivo…hanno braccia sempre aperte e mani che non afferrano». La scrittrice romana probabilmente è consapevole di alludere, nemmeno troppo indirettamente, al concetto di accoglienza. Gli psicologi ne sanno la valenza. La scrittrice insiste nel dichiarare – non accettando smentite – che quei pupazzi morbidi, privi di spigolature, «sono, fra i giocattoli, i più affettuosi». E poi hanno l’odore. Quello dei bambini con cui dormono. Sono impregnati del profumo particolarissimo dell’infanzia. E gli occhi? Piccoli, in apparenza. In realtà nascosti. Per osservarli bene si deve scostare il pelo. E qui Petrignani butta lì un paragone caratteriale: quella «cauta, rispettosa timidezza» ricorda «le persone particolarmente sensibili». Occhi piccoli, occhi grandi: si devono scoprire: «in realtà sono immensi, notturni». Lo stesso per le persone buone: «Sembrano minuscoli perché non si lasciano guardare liberamente, restano feriti dall’invadenza degli altri e perciò si proteggono dietro la stretta morsa delle ciglia».