Nicola Fano
Al Teatro la Comunità di Roma

Amleto a Parigi

Giancarlo Sepe ha costruito una elegante parodia di Amleto: lo ha trasportato in Francia negli anni Trenta di Marcel Carné e lo ha trasformato in un ragazzino viziato. Perché le responsabilità pesano in ogni epoca

Gli ultimi cent’anni sono pieni zeppi di parodie di Amleto: da Petrolini a Corrado Guzzanti passando per i De Rege, Campanile, Macario, Tino Scotti, Gigi Proietti. Ora l’elenco si allunga grazie a un bello spettacolo di Giancarlo Sepe in scena al Teatro La Comunità. Sì, fa sempre bene tornare in questa cantina storica: ci si respira un’aria internazionale; sembra quasi di non stare nella Roma asfittica di questi anni. E le pareti tappezzate di magnifiche gigantografie di Beckett pongono subito lo spettatore nella disposizione giusta per entrare nel gioco di del nuovo Amletò che vi si recita con il contributo fondamentale di otto attori giovani e bravissimi: Guido Targetti, Federica Stefanelli, Yaser Mohamed, Teresa Federico, Mauro Racanati, Elena Fazio, Daniele Biagini, Manuel D’Amario.

Dunque. Prendete il nocciolo della questione shakespeariana (il re Amleto tradito, ucciso e usurpato; il figlio Amleto chiamato alle proprie responsabilità di vendetta dal fantasma del padre; poi l’amore malcerto per Ofelia e quello morboso per madre; infine la rabbia giovanilista di Laerte…) e mettetelo da parte. L’Amleto di Shakespeare, naturalmente, c’è, ma non si vede. Il marcio in Danimarca si intuisce ma, dopo un prologo in un luogo imprecisato del mondo invaso dai nazisti, tutto capita in Francia, anni Trenta, precisamente all’Hôtel du Nord, quello del film di Marcel Carné. Ecco perché lo spettacolo, vezzosamente, si intitola Amletò, con l’accento sulla o alla francese… L’immaginario di Sepe, da sempre, è cinematografico, ma la sua intelaiatura critica è teatrale. Anzi, intrisa di drammaturgia del Novecento. Sennonché quello che mi è più piaciuto di questo bello spettacolo è il copione. Perché? Presto detto: le (poche) parole dette dagli attori sono in francese. Un francese appena appena maccheronico, ma che lascia trasparire sia i sentimenti dei personaggi (ci sono pur sempre l’indeterminatezza di Amletò, la furbizia di Claudio, il dolore di Ofelia con una strepitosa morte nel Canal Saint-Martin). Avete presente La lezione di Ionesco? Lo scrittore rumeno disse di aver tratto i dialoghi da un manuale di conversazione: ebbene la stessa tecnica sembra aver utilizzato Sepe, giocando con la lingua fino a destrutturarla. A parodiarla, insomma.

Per il resto, lo spettacolo corre via a metà strada tra la pantomima e la nuova danza in un montaggio tipicamente cinematografico: perché questa è la cifra consueta di Sepe, il suo “stile”. Ecco, una considerazione m’è venuto di fare vedendo Amletò: Giancarlo Sepe è un regista “riconoscibile”, nel senso che i suoi spettacoli hanno tutti un segno inequivocabile, quasi una firma d’autore. E questo capita da sempre. Incapacità di rinnovarsi o fedeltà al proprio progetto poetico? La seconda mi sembra la spiegazione giusta: un marchio di fabbrica dal sapore internazionale (cosa che manca a quattro quinti del teatro italiano) che testimonia assoluta continuità di idee. Vi pare poco? In più qui c’è un’idea critica su Shakespeare niente male: questo Amletò è un ragazzino un po’ giocoso, un po’ irresponsabile. A volte fa ridere a volte provoca dolore: Francia o Danimarca, Medioevo o Novecento, il problema secondo Sepe è che le responsabilità pesano in ogni epoca. Ed è sempre più facile svicolarle, anche tempestando di morte e dolore il proprio cammino.

Andate alla Comunità, insomma, ne vale la pena.

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