In margine alla morte di Roberto Cerati
L’utopia Einaudi
Con lo storico presidente della casa editrice dello Struzzo se ne va l'ultimo frammento di un progetto ambizioso trascinato nel fango dall'egemonia culturale della destra, fatta solo di spot e revisionismo
La morte di Roberto Cerati, a lungo sodale di Giulio Einaudi, poi, dalla morte dell’editore, presidente della casa dello Struzzo e garante della continuità einaudiana, suggerisce molte considerazioni. Sulla persona di Cerati medesimo, sull’idea di mescolare editoria e cultura nel Novecento, sul concetto di impegno (inteso come sforzo di conoscenza) e su come tutto questo non ci sia più. E, in ultima analisi, anche su che cosa ha sostituito tutto ciò. Un complesso di questioni non breve e non facile, dunque. Andiamo con ordine.
Entrato in Einaudi quasi per caso quando ancora rimbombavano per l’Italia i colpi della Seconda guerra, Cerati non s’atteggiava propriamente a intellettuale, ma partecipava a un progetto “intellettuale”: costruire la coscienza degli italiani. O, se vogliamo, completare l’opera di definizione dell’identità italiana che il Risorgimento aveva lasciato a metà (condannandoci per sempre all’indeterminatezza, per altro). Questo era il progetto della casa editrice Einaudi secondo Leone Ginzburg che la fondò con Giulio Einaudi. In questo castello di pretese irragionevoli («fare gli italiani», figuriamoci!), Cerati prese presto le chiavi dell’ufficio commerciale, ossia lo snodo più delicato di ogni impresa culturale: combinare le idee con la resa economica è sempre stata una scommessa folle, qui in Italia. Eppure per lunghi decenni la politica commerciale di Cerati ha funzionato: libri se ne vendevano a bizzeffe e il marchio dello Struzzo è diventato uno dei più riconoscibili nel mondo dell’Italia del Novecento. Al pari della Ferrari, del Campari e di altre poche altre cose.
Chi lo ha conosciuto, racconta dei suoi mitici silenzi: pare che Cerati non si esponesse troppo nelle riunioni di direzione, ma i suoi silenzi, appunto, spesso erano molto più pesanti di un encomio o di una bocciatura rumorosa. Non ho l’ho mai conosciuto di persona, ma una decina d’anni fa ebbi un fitto scambio di corrispondenza con lui quando – io ero tra i numerosi consulenti della casa editrice – Cerati mi fece sapere che avrebbe apprezzato avere da me dei suggerimenti per qualche titolo da pubblicare nella collana teatrale alla quale, era noto, teneva moltissimo contro ogni convenzione commerciale. Discutemmo a lungo per lettera intorno a qualche titolo di elisabettiano o a testi minori di Goldoni. Ma all’improvviso la sua corrispondenza s’interruppe, senza una ragionevole spiegazione, per me. I titoli che avevo suggerito non videro mai la luce, ma dopo molti mesi realizzai un progetto del quale vado molto fiero: curai l’edizione critica dei testi per il Varietà di Petrolini (con molti inediti, all’epoca) nei classici Einaudi. Il «più geniale dei cretini» nel tempio della cultura alta italiana! Da Cerati non ebbi più notizia, ma ho sempre avuto il sospetto che avesse avuto un peso non indifferente nella realizzazione di questo azzardo.
Anche questo è stato il progetto Einaudi: una lampada accesa in grado di suscitare curiosità. Ogni libro non ha (solo) un valore in sé, ma ne ha in funzione degli altri che porta con sé, degli altri che fa vendere. Vale sia per i romanzi (un buon romanziere fa sì che il lettore torni da lui…) sia, ancor di più, per la saggistica: un buon saggio non basta mai a se stesso ma deve imporre la lettura di altri libri. Perché la lettura è conoscenza. E la conoscenza non finisce con la controcopertina. Questa è stata l’idea che ha sorretto non solo l’avventura della casa editrice Einaudi della quale Cerati è stato uno dei pilastri fondamentali, ma anche l’utopia inseguita da un pezzo vasto della società italiana nella seconda metà del Novecento.
La tanto vituperata “egemonia culturale della sinistra” era questo: un impegno condiviso da molte realtà produttive (case editrici, compagnie teatrali, artisti cinematografici) a far crescere la conoscenza e l’immaginario degli italiani. È ormai dalla metà degli anni Ottanta che l’egemonia culturale nel nostro Paese è saldamente nelle mani della destra e si è manifestata tanto nel dominio dei modelli commerciali della tv, del cinema e del teatro assoggettati alle necessità degli inserzionisti pubblicitari quanto nell’elaborazione di un funesto relativismo culturale che ha preso il nome di “revisionismo” e ha semplicemente, sistematicamente distrutto qualunque fondamento storico dell’identità italiana. Sennonché ora ci ritroviamo tutti “clienti” da sfruttare e senza alcuna certezza sul nostro passato e sul nostro futuro. Mi pare che il progetto di Einaudi e di Cerati fosse migliore. Indiscutibilmente migliore.